Milano, 3 gen. (askanews) – L’accordo sul nucleare è l’ago della bilancia che negli ultimi anni ha definito la qualità dei rapporti fra Stati Uniti e Iran, mai così tesi come ora, dopo l’uccisione in un attacco Usa del generale iraniano Soleimani.
Un equilibrio da sempre delicato, rotto nel 2018, quando il presidente Trump ha annunciato di voler abbandonare l’accordo negoziato da Barack Obama, e ripristinare le sanzioni contro Teheran.
La situazione è precipitata, l’Iran ha ricominciato ad arricchire l’uranio e in Medioriente si sono moltiplicati gli episodi di tensione.
A giugno 2019 un drone americano è stato abbattuto dalle forze iraniane mentre sorvolava lo stretto di Hormuz. Tre mesi dopo l’attacco contro una delle più grandi raffinerie saudite, partito dallo Yemen, ma orchestrato da Teheran secondo gli Stati Uniti. Scambio di accuse, ma nessuna reazione di Washington.
Fino a dicembre quando una pioggia di missili colpisce alcune basi americane nel nord dell’Iraq. Muore un contractor statunitense. L’aviazione americana stavolta risponde con un attacco a basi Hezbollah, sostenuti dall’Iran in Iraq e in Siria. Muoiono 25 persone.
Basta per infiammare Baghdad dove migliaia di sostenitori filoiraniani a fine 2019 assaltano l’ambasciata americana. Fra loro Abu Madhi Muhandis, l’uomo di Teheran a Baghdad, vice delle brigate Hezbollah, ucciso nel raid americano insieme con Soleimani.