Parla Faggin, creatore del primo microchip

Lo scienziato italiano parla a We The Italians

GIU 10, 2019 -

Roma, 10 giu. (askanews) – Non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno che ha concretamente cambiato il mondo. Forse, vado a memoria scrive su We The Italians Umberto Mucci – per me è la prima volta, anche se la nostra chiacchierata si è svolta al telefono, connettendo l’Italia e la California grazie ad alcuni devices tutti dotati di (almeno) un microchip. Ed è Federico Faggin, il creatore del primo microchip della storia, il protagonista di questa intervista. Un meraviglioso italiano emigrato tempo fa in America, uno straordinario testimonial di come eccezionali cose accadono quando si incontrano Italia e Stati Uniti, che proprio lo scorso 8 giugno è stato protagonista di un bellissimo evento a Vinci, patria di Leonardo, organizzato dall’amico Roberto Bonzio, facilitatore anche di questa intervista (grazie Roberto!). L’intervista integrale si può trovare sul sito di We The Italians

https://wetheitalians.com/interviews/italian-america-who-changed-world-meet-great-federico-faggin

Ingegner Faggin, era il 1971 quando lei diede vita ad una rivoluzione digitale, creando il primo microchip che si chiamava Intel 4004. Si deve anche un po’ a lei il nome “Silicon Valley”. A quel punto lei era già un prodotto dell’unione eccellente tra Italia e Stati Uniti, essendo nato e cresciuto nel Bel Paese ma avendo poi affinato le sue conoscenze lavorative in California. In quei sei mesi in cui prese in mano il progetto e lo portò a compimento, le era chiara la portata storica di ciò che stava facendo?

Certamente, mi era chiaro sin dall’inizio che il microprocessore sarebbe stato un prodotto rivoluzionario, anche se questa non è stata una vera e propria invenzione perché se ne parlava già come qualcosa che sarebbe stato realizzato in futuro. Era però necessario avere una nuova tecnologia di fabbricazione che lo rendesse possibile. Questa tecnologia fu il mio primo progetto alla Fairchild Semiconductor appena arrivato in California agli inizi del 1968. In quella sede, inventai la tecnologia MOS con gate di silicio, tecnologia che permise di fare tutti i pezzi necessari a fare un computer monolitico, incluso il microprocessore. Il primo microprocessore al mondo fu chiamato Intel 4004. Lo progettai in gran parte da solo utilizzando le mie idee chiave e ne fui a capo della sua realizzazione all’Intel nel 1970-’71.

Il microprocessore ha avuto moltissimo impatto perché ha rivoluzionato il modo di progettare sistemi elettronici e ha aperto una moltitudine di nuove applicazioni che prima erano impossibili. Devo dire però che la realtà ha superato di molto le mie aspettative per la rapidità con cui il microprocessore venne adottato e per la novità di molti prodotti resi possibili per la prima volta. Per esempio, non avevo immaginato l’avvento di Internet che per essere trasformativo avrebbe richiesto che centinaia di milioni di persone avessero un computer personale a disposizione.

Nel caso di Internet, era quasi impossibile prevedere il futuro perché le dinamiche in gioco erano del tutto nuove e richiedevano non solo la creazione dei primi computer personali, ma soprattutto la loro diffusione a livelli così capillari da essere considerati impossibili a quel tempo. Poi bisognava connettere i computer tra di loro, cosa che si poteva fare a livello istituzionale, ma non su grande scala per utenti privati. Con l’invenzione negli anni ’90 del World Wide Web, l’ascesa di Internet fu letteralmente mozza-fiato.

Il microprocessore è stato veramente un’invenzione fondamentale perché ha permesso di ridurre le dimensioni, il consumo energetico e il costo di un computer al punto che anche uno spazzolino da denti poteva contenere un potente computer. Il nostro mondo è letteralmente cambiato. Basta guardare all’influenza dei telefoni intelligenti che ora dominano la scena e che quasi ogni persona ha oggi in tasca. Quaranta anni fa l’elettronica contenuta in uno di questi telefonini avrebbe occupato un intero fabbricato di 2000 metri quadrati.

Quanto c’è di italiano nella creatività, nel genio e nella caparbietà che l’hanno portata a creare l’Intel 4004, e poi a occuparsi dello sviluppo di tutti i microprocessori dei primi cinque anni della storia della Intel, poi a dare vita alla prima comunicazione integrata dati-voce e ancora ai primi touchpads e touch screen?

Diciamo che alla base di tutto ciò c’è stata una grande passione che mi ha motivato a portare avanti la conoscenza, le tecnologie, i nuovi dispositivi e i nuovi modi di interagire con le macchine. Tutto poi è avvenuto secondo le circostanze.

Quando iniziai a lavorare all’Olivetti nel 1960, non avrei mai previsto che il progetto e la costruzione di un computer grande come un armadio mi avrebbe condotto nel giro di soli 10 anni alla laurea in fisica, allo sviluppo della nuova tecnologia MOS, al primo microprocessore e poi a dieci anni ulteriori di innovazioni dando vita alle prime quattro generazioni di microprocessori.

La creazione dei primi touchpad e touchscreen, di cui sono co-inventore, hanno poi cambiato irreversibilmente il modo con cui interagiamo con i nostri dispositivi mobili.

Quando progettavo il 4004, non avrei mai immaginato che avremmo avuto un iPhone 40 anni dopo con le capacità dei telefoni intelligenti a cui ora siamo abituati. Ciò accadeva molti anni prima del personal computer, della rivoluzione nel campo delle telecomunicazioni dati, di Internet e del GPS. Ero consapevole che ci sarebbero state moltissime nuove applicazione, ma quello che dovevo fare per primo era riuscire a portare questa innovazione nel mondo, dedicando tutta la mia energia alla sua riuscita, affinchè esso affondasse le proprie radici nel mondo.

Il mio zelo e la mia caparbietà sono andate anche contro l’opinione del management dell’Intel, il quale pensava che quei dispositivi fossero interessanti solo come “prodotti custom” per qualche cliente, perché non riuscivano a immaginare le possibilità future. Solo dopo aver dimostrato che usando il microprocessore si potevano creare sistemi di controllo molto più facilmente di come si faceva prima, riuscii a convincere il management dell’Intel a introdurre il 4004 sul mercato generale.

Questa determinazione e volontà non sono esclusive di un italiano, anche se le percepisco essere parte dei miei geni e della mia cultura. Ciò che trovo invece caratteristicamente italiana fu la mia versatilità dovuta ad una buona preparazione generale e alla mia intuizione. In confronto con un ingegnere americano che tende ad essere specializzato in una sola disciplina, io ero esperto sia nella nuova tecnologia MOS silicon gate, sia nel progetto logico e circuitale di circuiti integrati e sia nell’architettura di computer, data la mia esperienza alla Olivetti dove ne avevo progettato in parte e costruito uno quando avevo 19 anni.

Come accennato prima, la tecnologia MOS silicon gate fu il mio primo progetto negli USA. Questa tecnologia era 5 volte più veloce e 2 volte più densa della tecnologia MOS precedente e permise di fare dispositivi prima impossibili, come le memorie RAM dinamiche, le memorie non-volatili e i sensori di immagine CCD, per non parlare del microprocessore che, per essere trasformativo, richiedeva la densità e la velocità che solo il silicon gate poteva fornire.

La versatilità tipicamente italiana a cui accennavo dipende da due fattori. Il primo è il merito delle scuole italiane; io mi laureai in fisica all’Università di Padova (con 110 e lode), e avevo una preparazione con cui ero in grado di poter fare qualsiasi cosa, dalla fisica, alla matematica, all’ingegneria. Devo molto anche alla preparazione ricevuta nella scuola tecnica industriale con buoni laboratori di elettronica. La scuola italiana mi ha dato una base molto buona e mi ha insegnato non solo a pensare, ma anche ad applicare gli insegnamenti. Un altro importante fattore è stato l’educazione ricevuta in famiglia, con mio padre professore di filosofia sia al liceo classico che all’Università di Padova, uno studioso che scrisse più di 40 libri.

A casa nostra c’era una ricca biblioteca di letteratura e di musica classica di cui ho potuto usufruire. Sicuramento è stata l’influenza dell’ambiente che mi ha portato più avanti ad occuparmi della natura della consapevolezza. Oggi esiste una fondazione no-profit che ho creato con mia moglie, Elvia, che studia scientificamente questo aspetto della realtà e finanzia gruppi di ricerca presso varie università statunitensi.

Ho studiato in prima persona la natura della consapevolezza, la sua importanza e perché ci distingue dalle macchine che noi facciamo e dall’intelligenza artificiale. Molti studiosi negli USA, ritengono che un giorno le macchine saranno consapevoli. Io non sono d’accordo e ho sviluppato delle teorie e dei modelli a supporto della mia tesi. consapevolezza che continuerà ad essere arricchito da ulteriori approfondimenti.