Petrolio, gli orsi spadroneggiano e sale paura crollo a 20 dollari

Solo poche voci controcorrente, prevalgono scommesse al ribasso

GEN 12, 2016 -

Roma, 12 gen. (askanews) – Il mercato del petrolio è ormai preda degli “orsi”, coloro che prevedono un andamento ribassista. Il pessimismo prevale, fin quasi al catastrofismo in un segmento che negli ultimi 12 mesi ha visto le quotazioni lasciare sul terreno oltre il 45 per cento. Il barile di oro nero è finito a ridosso della soglia psicologica dei 30 dollari e si moltiplicano le previsioni da parte di grandi banche d’affari sulla possibilità che sprofondi a 20 dollari.

Ma ci sono anche alcune voci controcorrente. Come quella del ministro dell’Energia degli Emirati Arabi uniti, Suhail al-Mazrouei, che nel corso di un forum sul settore ad Abu Dhabi si è detto “personalmente convinto che prima della fine del 2016 assisteremo sul mercato ad una correzione (al rialzo-ndr). Ce lo dicono i fondamentali”.

Sarà così, ma intanto anche Morgan Stanley (come nelle scorse settimane Goldman Sachs, Citigroup e Bank of America) ora prevede che il barile cada a 20 dollari. Sia sulla base di fondamentali che, secondo la maggior parte degli osservatori, indicano debolezza della domanda, sia a causa di ulteriori spinte ribassiste che potrebbero derivare dai cambi valutari.

In particolare Morgan Stanley cita il recente indebolimento dello yuan cinese sul dollaro, che di fatto tende a rendere più costoso per il Dragone l’import di petrolio e per questo potrebbe moderarne ulteriormente le richieste.

Del resto allo stesso forum di Abu Dhabi, il presidente dell’Opec, il nigeriano Emmanuel Ibe Kachikwu, ha ventilato l’ipotesi di tenere un vertice di emergenza del cartello a inizio marzo, ricordando che era stato concordato di esaminare questa possibilità all’ultima riunione se il barile fosse calato a 35 dollari.

Fino ad oggi però l’Opec è apparsa chiaramente divisa e incapace di intervenire con tagli all’offerta. Anzi, il Paese capofila del cartello, l’Arabia Saudita, primo produttore mondiale di petrolio, è generalmente ritenuto proprio l’artefice dello squilibrio attualmente presente sul mercato. In pratica Riad avrebbe innondato il mercato già poco assetato per stroncare sul nascere la nuova produzione nord americana, basata su tecniche estrattive molto più costose, come quelle delle sabbie bituminose e della frammentazione idrolitica, e al tempo stesso per rovinare il reingresso sul mercato del rivale storico, l’Iran, con il quale in parallelo di recente si sono accumulate sempre più forti tensioni geopolitiche.

Ora però è la stessa Arabia Saudita a pagarne il prezzo: come tutti i grandi esportatori il bilancio del Reame accusa un crollo di gettito. Tanto che sta studiando la possibilità di quotare in Borsa il suo gioiello più prezioso, la compagnia petrolifera Aramco.

A contribuire alla debolezza ci si mette anche la finanza. Secondo il Financial Times sulle Borse merci di New York e Londra si sono accumulate scommesse al ribasso a livelli da record. Ma anche qui qualche audace concorrente c’è: lo stesso quotidiano rileva che nelle ultime sedute diversi fondi hanno aumentato le scommesse in direzione opposta, le posizioni “lunghe” almeno sul Brent, il greggio di riferimento del mare del Nord. I “tori” comunque sono pochi nel petrolio, e sul West Texas Intermediate prevalgono le puntate al ribasso.

Nelle ultime ore il Wti è sceso fino a 30,41 dollari sui minimi dal dicembre del 2013, successivamente ritraccia a 31,14 al barile, comunque in calo di 27 cents rispetto alla chiusura di ieri. Il barile di Brent, il greggio di riferimento del mare del Nord è sceso fino a 30,43 dollari, minimo dall’aprile 2004, e a mattina inoltrata Europa si attesta a quota 31,45, in calo di 10 dal fixing precedente.