Un anno di libri: la non fiction come miniera d’oro letteraria

Dyer, O'Hagan, Westerman, Calasso, ma anche Reza, Saunders, Haruf

DIC 19, 2017 -

Milano, 19 dic. (askanews) – ‘Non sapevano esattamente che cosa ci aspettassimo, però ci aspettavamo di più. Di più di che cosa? Di più di qualcosa. E poi, piano piano, lo si capisce. Si capisce che questa non è un’opera d’arte da guardare, bensì, vale la pena ripeterlo, un’esperienza di spazio che accade nel corso del tempo’. Così lo scrittore inglese Geoff Dyer descrive la celebre installazione di Land art ‘Lightning Field’ di Walter De Maria, il ‘campo dei fulmini’ nel deserto dove in realtà i fulmini capitano piuttosto di rado, ma a capitare alla fine è altro, è probabilmente l’arte. Sia quella di De Maria sia quella di Dyer che scrivendo di se stesso davanti all’opera crea a sua volta una forma d’arte molto contemporanea. Nel tempo in cui le grandi narrazioni faticano, con delle solide eccezioni che rispondono per esempio ai nomi di Colson Whitehead e di Michael Chabon (non proprio due autori qualsiasi), per questo 2017 in sede di bilancio finale vorremmo scegliere di premiare un piccolo pezzo, che è parte di un libro di quasi non fiction (perché è comunque il libro di un grande scrittore, non solo di un bravo saggista) che risponde al titolo di ‘Sabbie Bianche’, pubblicato in Italia da Il Saggiatore. Una raccolta di ‘luoghi’ usciti dalla penna di Dyer con una grazia, una precisione, una soggettività che diventano, in modi diseguali, forme di meraviglia letteraria, laddove, forse, non ci si sarebbe aspettati di trovarne. E anche nel paradiso (o presunto tale) della Polinesia francese dove fuggì Gauguin, un Eden oggi consacrato al Turismo, lo scrittore trova la lucidità per ricordarci che ‘un’unica semplice legge governa l’esistenza delle isole remote: non c’è altro da fare che andare completamente in pezzi’. Potete scegliere gli echi che una frase di questo tipo vi richiama alla mente: Conrad, Céline, Melville, Poe, Plath? La risposta è libera, ma il senso di grande letteratura resta lo stesso, fatto a pezzi, e ricomposto, in un testo che andrebbe definito di ‘miscellanea’ e che, per noi, si merita l’effimero e opinabile titolo di libro dell’anno 2017.

Accanto a Dyer, in un immaginario podio, sta molto bene un altro britannico, ma scozzese questa volta, Andrew O’Hagan, che, anche lui, si merita il riconoscimento per un libro di totale attualità (anzi, forse addirittura in anticipo sull’attualità per non pochi aspetti) come ‘La vita segreta – Tre storie vere dell’era digitale’, pubblicato in Italia da Adelphi, senza ricorrere alla fiction, ma, quello sì e in grande spolvero, alla penna di uno scrittore. Il risultato è una raccolta di tre pezzi – su Jullian Assange, sulle false identità che è possibile costruirsi in Rete e sulla nascita del Bitcoin e il suo misterioso inventore – che interseca i terreni della cronaca e della scrittura in maniera altrettanto interessante rispetto a quanto fatto da Dyer e costringe il lettore a stare in una posizione di ambivalenza: da un lato i tre racconti svelano senza alcun dubbio la faccia più oscura e pericolosa della nostra società; dall’altro però la postura dello scrittore, la sua semplice esistenza autoriale in un certo senso, è garanzia di un ‘sollievo’ che accompagna la lettura, derivante anche dalla consapevolezza di essere parte di questo mondo e, volendo, di avere la possibilità – non diciamo di cambiarlo, sarebbe troppo – ma quantomeno di leggerlo per quello che è.

Il romanzo, però, non è mica morto. Vive in modi diversi, per esempio quelli di Yasmina Reza, la scrittrice francese che, dopo lo straordinario e urticante ‘Felici i felici’, torna a scavare dentro le famiglie con ‘Babilonia’ (Adelphi), storia di un vicino di casa come tanti, perfino più grigio di tanti, che a un certo punto, dopo l’ennesimo rimprovero da parte della moglie, oltrepassa il confine dell’omicidio. Raccontata in questo modo potrebbe sembrare semplice o banale, ma quasi niente è banale nelle pagine della Reza, dove, come si addice ai libri migliori, si sente anche l’irrazionale (ma decisiva) empatia dell’autore per i suoi personaggi e le sue storie, un’altra delle qualità che, di solito, identificano un grande scrittore di cose crudeli. Ma nella crudeltà, quella vera, quella letteraria, ci sono anche momenti di straziante semplicità. ‘Niente più Manoscrivi sopra di noi – dice a un certo punto la protagonista del romanzo parlando dei vicini scomparsi (lei uccisa, lui in prigione) – I Manoscrivi al quinto piano erano l’ordine familiare delle cose. So quanto questo possa sembrare irrisorio se paragonato alle notizie dal mondo. Ma ciò che con lei è scomparso è un bene invisibile, a cui non si pensa, è la vita che va da sé’.

L’ordine familiare delle cose della Reza è lo stesso che viene sconvolto in due altri libri che sono finiti, più o meno, in tutte le classifiche di fine anno, e anche in questa: il primo è ‘Lincoln nel Bardo’ (Feltrinelli) dell’americano George Saunders, che ha vinto il Man Booker Prize con una storia ambientata in una sorta di limbo che divide il regno dei vivi da quello dei morti, nel quale il figlio del presidente Abraham – l’uomo americano per eccellenza, almeno in ambito politico – si trova a sostare dopo la sua scomparsa terrena. Nel coro di voci che raccontano la storia si configura uno degli ultimi libri figli di quell’avanguardia che aveva un nume tutelare in David Foster Wallace, per citare un nome, e si ricompone il dolore di un padre di fronte alla più inaccettabile delle svolte del destino, ma anche la storia di un figlio, ruolo altrettanto complesso, specie se prematuramente dipartito. Il secondo è invece ‘Le nostre anime di notte’ (NN) di Kent Haruf, piccolo libro arrivato al grande pubblico sull’onda dell’entusiasmo per la precedente trilogia dello scrittore americano, ma che vive di una qualità, che potrebbe sembrare melenso definire ‘tenerezza’, ma è esattamente di questo che si sta parlando. L’amore fra due anziani vicini di casa, che finisce in una separazione e poi in un diverso ritrovarsi, è fatto per colpire i lettori, così come appaiono talvolta ‘facili’ i dialoghi tra i due personaggi. Ma il libro resta forte, resta vero, nonostante questi punti problematici e la sua verità arriva a parlare al lettore comune con riconoscibile evidenza.

Una citazione, in questi ‘highlight’ di libri dell’anno che si sta chiudendo, la merita poi ‘I soldati delle parole’ (Iperborea), l’ultimo reportage letterario di Frank Westerman, scrittore olandese di razza che, scegliendo le figure di coloro che affrontano i negoziati con i terroristi, ci mette di fronte ad alcune profondissime verità sul nostro tempo e sul potere della parola, oltre che a un altro (ennesimo) esempio di come la non fiction di qualità sia probabilmente il filone aurifero della migliore letteratura dei nostri tempi. Terrorismo che è anche il tema, chi lo avrebbe detto, dell’ultimo libro di Roberto Calasso, ‘L’innominabile attuale’, ovviamente pubblicato dalla sua casa editrice, quella Adelphi che, dobbiamo dirlo, se ci fosse si meriterebbe il premio come ‘scuderia’ per la qualità di ricerca dei suoi libri in quest’anno, e tra essi vanno ricordati titoli inediti, come il sorprendente ‘Tutto quello che è un uomo’ di David Szalay (un libro nuovissimo che apparentemente sembra un classico degli anni Trenta) oppure ripubblicazioni decisive come il memorabile saggio di Carlo Ginzburg ‘Storia notturna’, dedicato ai rituali oscuri del Sabba. Calasso scrive di secolarizzazione e nichilismo con quella sua voce inconfondibile: ‘La potenza che muove il terrorismo – leggiamo – e lo rende assillante non è religiosa, né politica, né economica, né rivendicativa. E’ il caso. Occorreva che la società giungesse a sentirsi autosufficiente e sovrana perché il caso si presentasse come suo principale antagonista e persecutore’. L’attuale del titolo è la nostra vita, esattamente come è. Sentirsela raccontare da un autore che, per definizione, è inattuale (nel modo in cui era inattuale Nietzsche, per intenderci, senza voler fare paragoni azzardati) è qualcosa che rimane puro fascino e mistero del presente.

Il nome di Calasso ci porta, inevitabilmente, a parlare di Italia. Il nostro suggerimento in questo caso è di dimenticare i premi (che nel Belpaese arrivano sempre ‘dopo’, molto raramente ‘prima’, come sarebbe auspicabile) e pure chiudere un occhio sui bestseller (che ci sono), anche se quello che resta a quel punto non è molto. Resta la personalità crossidisciplinare di Gianluigi Ricuperati, che con ‘La scomparsa di me’ (Feltrinelli) continua a giocare la sua partita perfettibile alla ricerca di un romanzo che sia tale, ma che sia anche un pezzo di un’altra forma d’arte, o, meglio, alla ricerca di una forma d’arte che usi tutto del romanzo, ma aggiungendo qualcosa, pur all’interno apparentemente della cornice romanzesca. Restano Teresa Ciabatti e Giuseppe Genna, scrittori che sanno usare in modi diversi, ma quasi sempre interessanti il pronome ‘io’. Restano, soprattutto, due scrittori che non hanno pubblicato libri nel 2017, ma che hanno guidato, in un momento difficile e perfino conflittuale, le due grandi fiere del libro di Torino e di Milano, Nicola Lagioia, che ha rilanciato il Salone torinese, e Chiara Valerio, chiamata alla difficile sfida di dare un’anima alla prima edizione di Tempo di Libri a Milano. Le cronache spicciole parlano delle difficoltà incontrate nel capoluogo lombardo e di una edizione memorabile sotto la Mole. Permetteteci però di ricordare che lo ‘strappo’ degli editori che hanno voluto traslocare a Milano – giusto o sbagliato che lo si consideri – ha costretto Torino a fare i conti con se stessa e, ne siamo certi, il successo raccolto dalla manifestazione guidata da Lagioia è stato anche una conseguenza degli stimoli che Chiara Valerio e la sua squadra hanno lanciato da Milano. Poi ci sono sempre ultrà e campanilisti, ma qui ci interessa solo ricordare che anche questo è un modo di essere scrittori oggi.

Scrittori come lo è stato, con una intensità totalizzante, Roberto Bolaño, di cui Sur ha pubblicato le prose poetiche ‘Tre’, e a cui affidiamo una citazione che sembra perfetta per fotografare il nostro mondo: ‘Il paradiso appare velocemente, nella visione generale del caleidoscopio. Una struttura verticale piena di macchie grigie. Se chiudo gli occhi, mi balleranno dentro la testa i riflessi degli elmi, il tremore di una pianura di lance, quello che tu chiamavi il giaietto. E poi, se tolgo gli effetti drammatici, mi vedrò camminare nella piazza del cinema verso le poste, dove non troverò nessuna lettera’. La poesia è per definizione ostica, e di certo Bolaño è stato più importante come narratore che come poeta, ma oggi c’è anche uno scrittore, che, potremmo azzardarci a ipotizzare, meglio di chiunque altro incarna il senso del presente, proprio nel suo essere sia un romanziere sia un poeta. Stiamo parlando di Ben Lerner, una specie di surfista reticente in cerca di tutte le nuove onde della letteratura, che, nel 2017, da poeta e da critico, ha pubblicato il piccolo pamphlet ‘Odiare la poesia’ (Sellerio). ‘Socrate – scrive Lerner – è il più saggio degli uomini perché sa di non sapere nulla: Platone è un poeta che resta vicinissimo alla Poesia perché rifiuta tutte le poesie reali’. Si può fare un piccolo esperimento, sostituite poeta con uomo e poesia con vita e il gioco è fatto. Letteratura pura. Proprio qui (non) volevamo arrivare. Viva Ben Lerner.

Il pezzo sarebbe finito, ma occorre fare un’ultimissima citazione: non vincerà mai il Nobel, ma Philip Roth ora ha un primo bellissimo Meridiano Mondadori dedicato ai suoi romanzi fino al 1986. Anche questo, senza alcun dubbio, è uno dei libri dell’anno del Signore Duemiladiciassette.