Città del Vaticano, 7 mar. (askanews) – Il cristiano non reagisce alle persecuzioni né con la ‘spada’, la violenza, né con la ‘fuga’, emigrando (messa nella cattedrale caldea di Baghdad, sabato sera), ma deve invece tirare fuori ‘capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare’ (discorso nella città martire di Qaraqosh, domenica mattina). E’ il viatico, né buonista né sovranista, offerto da Francesco ai cristiani iracheni nel primo viaggio di un papa nel turbolento paese mediorientale (5-8 marzo).
Quello di Jorge Mario Bergoglio è un messaggio complesso, come complessa è la terra che visita, un messaggio al contempo realista e profetico, altamente spirituale e fortemente politico. Nella terra di Abramo, dove da secoli si mescolano le cose del cielo e quelle della terra, dove le tre religioni monoteiste, ebraismo cristianesimo e islam, si incontrano e si scontrano, ci voleva forse un romano pontefice, ‘honest brorker’ con le effigi del sacro, per almeno tentare di delineare la via d’uscita da quello ‘scontro di civiltà ’ che molti, dentro e fuori dall’Iraq, hanno alimentato.
Il ‘clash of civilizations’, teorizzato a inizio anni Novanta da Samuel P. Huntington, dai libri si è trasfuso nella politica. Secondo il politologo neoconservatore statunitense i conflitti nel mondo contemporaneo non erano legati alle ideologie o al dominio economico ma nascondevano uno scontro profondo fra culture contrapposte. Due culture, in particolare, egli guardava con sospetto e considerava inconciliabili con l’Occidente, quella cinese e l’islam. Una griglia interpretativa della geopolitica che prese vigore con gli attentati di al Qaida alle Twin Towers e al Pentagono dell’11 settembre 2001 e con la decisione dell’allora presidente statunitense George W. Bush di aggredire militarmente dapprima l’Afghanistan dei talebani (2001) e poi l’Iraq di Saddam Hussein (2003). Sotto le bombe rimase a Baghdad un solo ambasciatore ‘occidentale’, il nunzio apostolico Fernando Filoni, che in questi giorni accompagna papa Francesco in Iraq.
Non si comprende questo viaggio se non si ricorda che Giovanni Paolo II cercò di opporsi con ogni forza, e ogni stratagemma diplomatico, all’intervento militare deciso dalla Casa Bianca, e che la Santa Sede ha da allora considerato l’intervento militare del 2003 in Iraq, peraltro motivato con l’esistenza di armi di distruzioni di massa che non c’erano, la madre di tutte le tragedie che da allora hanno investito il Medio Oriente. Seppure i rapporti con Wahsington hanno avuto alti e bassi nel corso degli anni – Joseph Ratzinger, in particolare, ha mostrato notevole simpatia nei confronti di Bush jr, mentre con l’islam mondiale i rapporti sono stati a dir poco problematici – quell’evento rappresentò un momento di frattura, e di grande impegno, da parte di Karol Wojtyla ieri e di Jorge Mario Bergoglio oggi, nel tendere la mano all’islam mediorientale e mondiale. Nel 2003 gli Stati Uniti sostenevano di voler ‘esportare la democrazia’ e proteggere i cristiani, ma nella lettura vaticana (e non solo) hanno portato instabilità , innescato un’epoca di violenza, migrazioni di massa, nonché un’ondata di attentati che ha colpito in particolare i cristiani, percepiti sciaguratamente non più come fratelli ma minoranza protetta – è la retorica jihadista – dai ‘crociati’ occidentali. Uno schema che papa Francesco ha ribaltato con una scelta attentissima di parole, gesti, personalità incontrate.
A partire dalla visita – storia nella storia – al grand ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani. Il vescovo di Roma è andato ad incontrarlo a Najaf, città santa dell’islam sciita, l’anziano religioso musulmano, restio a ricevere ospiti, lo ha accolto nella sua modesta abitazione privata, alzandosi in piedi al momento dell’arrivo e del commiato. Niente dichiarazioni congiunte – che, d’altronde, avrebbero potuto indisporre un già guardingo vicino Iran, altro paese a maggioranza sciita dove il clero, dalla rivoluzione dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni in poi, ha una concezione più protagonistica del ruolo politico – ma le parole diramate a fine dell’incontro dalla Santa Sede e dalla residenza del grand ayatollah sono eloquenti. Francesco ha ringraziato Al-Sistani ‘perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno’. Il grand ayatollah, da parte sua, ha sottolineato ‘l’importanza di assicurare una vita nella pace e nella sicurezza ai cristiani iracheni garantendo i loro diritti costituzionali’.
I cristiani, dunque, non sono una minoranza distinta, garantita per motivi comunitari o religiosi, quinta colonna – privilegiata o perseguitata, a seconda dei rivolgimenti della storia – di qualche potenza occidentale. Oltre un milione e mezzo a inizio secolo, i cristiani iracheni sono oggi poche centinaia di migliaia. Con la visita ad Al-Sistani è come se il principale leader cristiano del mondo avesse affidato nelle mani della maggiore autorità musulmana del paese la loro presenza, in base ai diritti e ai doveri che condividono con i cittadini di ogni altro gruppo etnico o religioso. Concetto rafforzato incontrando subito dopo gli esponenti delle altre fedi nell’antica città di Ur, dove, secondo la tradizione, nacque Abramo, il patriarca comune a ebrei, cristiani e musulmani.
Le possibili ricadute geopolitiche del viaggio del papa vanno ben oltre i confini iracheni: come ha notato Alberto Negri sul manifesto, ‘il suo patto di Abramo vale, almeno moralmente, assai di più di quello tra Israele e le monarchie del Golfo voluto da Trump e ora caldeggiato da Biden’. E ‘forse non è del tutto casuale che, in coincidenza con il viaggio del papa in Iraq, l’ex capo dei pasdaran iraniani Mohden Rezai abbia affermato, in un’intervista al Financial Times, che l’Iran è pronto a un nuovo negoziato sul nucleare se gli Usa si impegneranno a togliere le sanzioni a Teheran entro un anno. Il patto di Abramo, quello tra Bergoglio e Sistani, magari potrebbe anche funzionare’.
A livello interno, di certo, il viaggio del papa è teso a rafforzare il superamento del settarismo che lacera l’Iraq: un settarismo distruttivo per i cristiani come per il resto della società , alimentato dagli ‘interessi esterni che si disinteressano della popolazione locale’ (discorso alle autorità civili a Baghdad, il primo giorno); dal terrorismo che ‘abusa della religione’ perché il fondamentalismo ‘non può accettare la pacifica coesistenza di vari gruppi etnici e religiosi, di idee e culture diverse’ (discorso interreligioso a Ur, il secondo giorno); e che può essere ulteriormente rafforzato dalla ‘corruzione’ della classe politica, dai problemi economici che colpiscono soprattutto i giovani (Francesco ha voluto incontrare un gruppo di ragazzi la prima sera del suo soggiorno in nunziatura) e, da ultimo, dalla pandemia. Lo stesso governo iracheno ha fortemente voluto il viaggio del papa: il primo ministro Mustafa Al-Kadhimi ha reso noto su Twitter che ‘per celebrare lo storico incontro a Najaf tra l’ayatollah Ali Al-Sistani e papa Francesco, e lo storico incontro interreligioso nell’antica città di Ur, dichiariamo il 6 marzo Giornata nazionale della Tolleranza e della Coesistenza in Iraq’. Ossia del superemanto del settarismo per ricostruire il paese.
Quanto alla comunità cristiana, che in Iraq ha nel cardinale Louis Rapahel Sako, patriarca di Babilonia dei caldei e grande regista della visita di Bergoglio, il loro ruolo è seguire Gesù: con un atteggiamento che attinge alla saggezza del Vangelo ma che diventa, nella lettura di papa Francesco, carico di conseguenze politiche. ‘Di fronte alle avversità ’, ha detto Bergoglio nella prima messa che ha celebrato, nella cattedrale caldea di San Giuseppe a Baghdad sabato sera, ‘ci sono sempre due tentazioni. La prima è la fuga: scappare, voltare le spalle, non volerne più sapere. La seconda è reagire da arrabbiati, con la forza. E’ quello che accadde ai discepoli nel Getsemani: davanti allo sconcerto, molti si diedero alla fuga e Pietro prese la spada. Ma né la fuga né la spada risolsero qualcosa. Gesù, invece, cambiò la storia. Come? Con la forza umile dell’amore, con la sua testimonianza paziente’. Il giorno dopo, domenica, il papa è volta nel Kurdistan iracheno, dal quale ha poi raggiunto la piana di Ninive, teatro della strage operata dall’autoproclamato Califfato dello Stato islamico: una preghiera in memoria delle vittime di violenza nel centro storico di Mosul, nella piazza delle quattro chiese – siro-cattolica, armeno-ortodossa, siro-ortodossa e caldea – distrutte dagli attacchi terroristici, dove gli jihadisti processavano i miscredenti. Poi la visita a Qaraqosh, la ‘città martire’, a maggioranza cristiana. L’Isis ha fatto strage, non di rado con la complicità di qualche vicino di casa. ‘Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani’, ha scandito il papa. ‘La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So – ha sottolineato il papa – che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra’.
Parole analoghe Francesco le aveva pronunciate il primo giorno del viaggio, facendo visita a quella cattedrale siro-cattolica di Baghdad dove il 31 ottobre 2010 l’Isis fece una strage di fedeli raccolti a messa. Anziché trasformare il martirio in un arma identitaria funzionale allo scontro di civiltà e alla distruzione del tessuto sociale iracheno, ‘possa il ricordo del loro sacrificio – ha detto Francesco – ispirarci a rinnovare la nostra fiducia nella forza della Croce e del suo messaggio salvifico di perdono, riconciliazione e rinascita’. E poi, ben consapevole che anche molti musulmani, nonché altre comunità minoritarie, in particolare gli yazidi, hanno sofferto la violenza e la morte negli anni scorsi, Bergoglio ha tenuto a ricordare ‘tutte le vittime di violenze e persecuzioni, appartenenti a qualsiasi comunità religiosa’.
‘Siete tutti fratelli’, è il motto del viaggio. Era dedicato alla fratellanza umana la dichiarazione congiunta firmata da Francesco con il grande imam di al-Azhar Ahmed al-Tayyib ad Abu Dhabi nel febbraio del 2019 (esponente di spicco dell’islam sunnita). Si intitola ‘Fratelli tutti’ la sua ultima enciclica. Ma Bergoglio non ha una visione naif della fraternità . In visita di recente nella casa romana di Edith Bruck, scrittrice ebrea di origini ungheresi sopravvissuta ai lagera nazisti, il papa ha esclamato: ‘Siamo tutti fratelli, anche se, a volte, Caino se lo dimentica, come è stato nel ‘900’. Da Mosul, roccaforte dell’Isis dal giugno 2014 al luglio 2017, Francesco ha ribadito il concetto: ‘Oggi, malgrado tutto, riaffermiamo la nostra convinzione che la fraternità è più forte del fratricidio, che la speranza è più forte della morte, che la pace è più forte della guerra’. Non emigrare, non reagire con violenza, lottare per rimanere, perdonare. Come fratelli: l’unica speranza, nonostante tutto
(di Iacopo Scaramuzzi).