Cina Roma, 22 set. (askanews) – Nell’estate del 2020 è accaduta una cosa di cui pochi si sono accorti al di fuori della cerchia degli osservatori di quel che accade a Pechino. La Banca del popolo cinese – cioè l’istituto centrale – ha fissato “tre linee rosse” per le compagnie immobiliari: un rapporto massimo debito-asset del 70%, un tetto masso nel rapporto tra indebitamento e capitale del 100% e una liquidità almeno pari ai debiti a breve. In quei giorni a Shenzhen, la capitale del Guangdong dove ha sede China Evergrande, i dirigenti di questo gigante immobiliare probabilmente saltarono sulla sedia. Da giorni il nome Evergrande campeggia sui titoli dei giornali e dei telegiornali e molti lo sentono in questa occasione per la prima volta. Ma cosa è di preciso questa compagnia? Il fondatore si chiama Hui Ka Yan in cantonese, ma è anche conosciuto come Xu Jiayin in cinese mandarino. Negli anni ’90 – pochi anni dopo la strage di piazza Tiananmen e nella prima fase della grande espansione economica cinese sulla base dei precetti di Deng Xiaoping – era un intraprendente operatore immobiliare impegnato a intercettare il bisogno di case della nascente classe media cinese. Nel 1996, a Guangzhou, fondò una piccola compagnia di sviluppo immobiliare, con pochi dipendenti: giusto in tempo per prendere l’onda del grande boom immobiliare cinese degli anni 2000. Per Hengda – poi Evergrande – fu una crescita smisurata. E quando a ottobre 2009 l’azienda si quotò a Hong Kong, raccolse con la sua IPO più di 720 milioni di dollari. Ma la principale fonte di finanziamento per Evergrande furono le banche. Ci si trovava in piena crisi Lehman in Occidente e, di fronte alle incertezze sui mercati globali, le banche cinesi orientvaano i loro investimenti e prestiti sul mercato interno e, in particolare, sugli alti rendimenti di un’immobiliare in piena espansione. Per di più Hui era un personaggio pieno di contatti politici che contano, quindi aveva una certa facilità ad accedere al credito. E’ così che Evergrande si gonfiò, ma commise anche quel peccato di vanità in cui molti gruppi di successo incorrono: si allargò ben oltre il suo core business acquisendo di tutto, dalle assicurazioni all’alimentare, dall’audiovisivo all’auto elettrica. Si dotò anche di una sua squadra di calcio, la Guangzhou Evergrande F.C., con cui puntò in alto: costruì uno stadio, ingaggiò come coach nel 2013 Marcello Lippi – c.t. dell’Italia campione del mondo nel 2006 – e poi ex campioni come Fabio Cannavaro. Un’ascesa inarrestabile, insomma, che portò Evergrande a essere la seconda compagnia immobiliare in Cina per metri quadri costruiti. Lo scorso anno le entrate del gruppo ammontavano a 507,2 miliardi di yuan (66,8 miliardidi euro). E tre anni prima, il fondatore Hui capeggiava la classifica di Hurun dei più ricchi imprenditori cinesi con un patrimonio pari a poco meno di 40 miliardi di euro. Lodato dal Partito comunista cinese come uno degli imprenditori che più avevano contribuito alla lotta contro la povertà promossa dal presidente Xi Jinping e dichiarata vinta. Ma, come sempre, sotto la patina luccicante covava un tarlo: l’indebitamento colossale del gruppo. Oggi è stimato essere 2mila miliardi di yuan (262,6 miliardi di euro). Che l’aria fosse cambiata per il settore immobiliare era abbastanza evidente, in realtà, già dal 2017, quando Xi aveva ricordato ai giganti di quel comparto che “le case sono fatte per viverci, non per farci speculazioni”. Con la fissazione delle “tre linee rosse” per Evergrande poi è arrivato il momento della verità: i regolatori hanno ordinato di abbassare il debito. Immediatamente il management ha cercato di vendere asset. Ha provato a scontare i propri condomini del 14 per cento sulla media di prezzo praticato durante quest’anno. Ha messo sul mercato altre compeanie. Si è anche paralto di una possibile vendita del suo ramo auto elettrica a Xiaomi. Ma le cose non sono migliorate e, quando il 13 settembre Evergrande ha annunciato di subire una “tremenda pressione” sul fronte della liquidità e che le prospettive delle vendite sono negative per i mesi a venire, il tappo è saltato. A questo punto – per quanto oggi Evergrande abbia assicurato che onorerà gli interessi obbligazionari in scadenza per 232 milioni di yuan (35,9 milioni di dollari) e nelle scorse settimane abbia assicurato che non chiederà bancarotta – un brivido di paura è corso lungo la schiena degli 80mila piccoli investitori che hanno messo i loro risparmi su questo gigante e tra i fornitori. Sono così cominciate le manifestazioni davanti al quartier generale della compagnia. E due dei principali alleati di Hui, Joseph Lau e la moglie Chan Hoi-wan, hanno venduto parte delle loro quote. Tranquille, però, non sono neanche più di 128 banche e 121 istituzioni non bancarie cinesi verso le quali Evergrande è esposta. E altrettanto gli investitori stranieri, visto che in ballo ci sono 17 miliardi di dollari in debiti verso entità estere. Infine, non se la vedono bene le stesse autorità cinesi, visto che il livello d’indebitamento di Evergrande non è così marginale: parliamo di circa il 2 per cento del Pil nominale cinese. Va anche ricordato che per Evergrande lavorano 200mila persone, senza considerare l’indotto. E ci sono migliaia di acquirenti di immobili, per lo più piccoli consumatori, che si sono giocati i loro risparmi nell’acquisto di appartamenti che rischiano di restare con sabbia nelle mani. Cosa potrà accadere ora? C’è chi dice che la compagnia possa presentare la bancarotta per andare a una ristrutturazione del debito. O che vi possa essere un salvataggio dello stato cinese, cosa finora esclusa da ambienti vicini al potere a Pechino, ma che potrebbe rivelarsi una pillola da ingoiare per evitare un danno d’immagine, più grave. Anche perché, da questo punto di vista, c’è il rischio che, dopo essere stata accusata di aver diffuso nel mondo l’epidemia Covid-19, la Cina possa essere considerata anche responsabile di un contagio finanziario e di una nuova crisi come quella del 2008-2009.
Evergrande, ecco come è nata la crisi che fa tremare i mercati
Una parabola dal boom dei primi anni 2000 al rischio bancarotta