Roma, 15 mar. (askanews) – L’Ufficio di controllo sulle condizioni di lavoro giapponese ha accertato che la morte di un dipendente del gigante dell’elettronica Sony, avvenuta negli Emirati arabi uniti a gennaio 2018, è stata causata da superlavoro. Si è trattato, insomma, di un caso di “karoshi”. Lo ha reso noto oggi la televisione pubblica nipponica Nhk.
Il “karoshi”, cioè il decesso da superlavoro, è considerato un importante problema sociale in Giappone, dove il rapporto tra grandi compagnie e dipendenti è profondamente simbiotico e supera quasi sempre in maniera eccessiva la prestazione di lavoro all’interno di un orario definito.
Molte aziende sono finite negli ultimi anni sotto accusa a causa l’utilizzo per tempi eccessivamente lunghi delle prestazioni dei loro dipendenti e il governo nipponico stesso ha dato vita a campagne per chiedere ai dipendenti di lavorare meno e alle aziende di tagliare l’eccessivo ricorso a straordinari.
L’ultimo caso – raccontato dai familiari e dal legale della vittima – riguarda un dipendente con più di 40 anni e meno di 50 (il nome non viene solitamente diffuso in questi casi per motivi di privacy), assunto a tempo indeterminato nel 2007 e poi inviato a occuparsi del marketing dei prodotti elettronici Sony a Dubai.
A gennaio di tre anni fa, però, l’uomo morì a causa di infarto. La famiglia, quindi, presentò la richiesta di risarcimento per infortunio sul lavoro, ma questa non fu in un primo momento riconosciuta, perché sulle registrazioni dei badge non risultava che il dipendente avesse fatto straordinari.
Così la famiglia, attraverso i suoi legali, ha dovuto effettuare un’inchiesta indipendente, risalendo agli accessi sul computer di lavoro e interrogando i colleghi della vittima. Si è così capito che la persona in questione, nei tre mesi precedenti al decesso, aveva lavorato 80 ore mensili medie in più dell’orario normale.
“Mio marito era un uomo con un forte senso di responsabilità e con un carattere sempre gentile verso chiunque. Tuttavia nei mesi precedenti alla sua morte, era diventato nervoso e stanco. Quel giorno, quando uscì di casa, aveva un pessimo aspetto. Non tornò mai più”, ha ricordato la moglie.
“Pur essendo morto per l’eccesso di lavoro, nell’azienda non si è voluto accertare se vi fossero responsabilità, si è trattata la questione come se nulla fosse accaduto. Io vorrei che la nostra diventasse una società in cui non si muore per il tropèpo lavoro, in cui i nostri figli possano lavorare in sicurezza coltivando le loro speranze”, ha continuato la donna.
Sony, dal canto suo, ha preso atto del pronunciamento. “Preghiamo dal profondo del cuore – ha detto in un comunicato l’azienda – che il nostro collega possa riposare in pace. Prendiamo atto con sincerità del riconoscimento da parte dell’Ufficio di controllo delle condizioni di lavoro e ci impegniamo con la massima serietà nel prevenire gli infortuni sul lavoro e nel controllare le condizioni di salute dei nostri dipendenti”.
Nel riconoscimento della morte per eccessivo lavoro, le autorità nipponiche non fanno tanto leva sulla causa clinica del decesso – può essere un infarto, un ictus o anche un suicidio, in tal caso si parla di “karo-jisatsu” – ma piuttosto sulle condizioni di lavoro che potrebbero aver innescato la crisi letale.
Nel 2019, ultimo dato disponibile, sono state riconosciute in Giappone 174 morti per superlavoro, 88 delle quali per suicidio.