Doha, 5 dic. (askanews) – Il deserto, con l’idea di vuoto che porta con sé, è una palestra perfetta per confrontare le nostre mitologie, come avrebbe detto Leonard Cohen, per verificare quanto l’immaginario collettivo sia penetrato dentro di noi. Quando mi addentro in quello occidentale del Qatar, sulle tracce di qualcosa che continuo a chiamare “arte contemporanea”, nella mia testa si susseguono scene di film western, frammenti di Land Art, brani dei R.E.M, il telefono di “Paris, Texas”. Poi, quando finalmente la vedo, l’opera colossale di Richard Serra “East-West/West-East”, il primo pensiero, automatico come il respiro, è per Stanley Kubrick e il Monolito di “2001”.
Quello che accade qui, nella riserva naturale di Brouq, in una piccola appendice della penisola arabica che sta combattendo con imprevisto orgoglio nazionale una battaglia geopolitica contro tutti i vicini, è però diverso da quanto capita alle scimmie primitive o all’astronauta del capolavoro kubrickiano. Innanzitutto perché i monoliti di Serra sono quattro, il che mette in crisi l’attitudine, per così dire, “monoteista” di fronte allo stupore assoluto, di fronte al nuovo, in questo caso di fronte all’idea stessa dell’opera d’arte.
Serra ha amplificato lo spazio di questo stupore, lo ha moltiplicato rendendolo a sua volta spazio metaforico, applicato allo spazio fisico, in una vertigine di calcolo intimo che è, almeno così mi pare mentre l’opera mi avvolge e travolge, la miccia che innesca il dispositivo artistico. Da qui inizia un altro tipo di viaggio, che diventa personale e indescrivibile, molteplice come le esperienze che il pezzo propone a ciascun camminatore del deserto (lanciato, come l’astronauta Bowman, a folle velocità dentro il Tempo e, soprattutto, dentro se stesso).
“East-West/West-East”, in ogni caso, è una affermazione, è qualcosa di “scritto”, è una versione aliena di quella “parola” che è, in modo più fisico che ad altre latitudini spirituali, al centro della cultura islamica (come si può facilmente verificare, per esempio, visitando il Museo di arte islamica di Doha, ospitato nella baia del porto da un edificio di I.M. Pei affacciato sullo skyline e, guarda caso, sul primo lavoro di arte pubblica di Serra in Qatar). Nel deserto l’artista americano ha composto un’affermazione assoluta, per la quale qualsiasi contenuto specifico è riduttivo, inadeguato, inutile. Una manifestazione, come nel caso di altri esempi inarrivabili di Land Art – per esempio il “Lightning Field” di Walter De Maria nel deserto del New Mexico – di geografia umanistica applicata, e, per estensione, di quel miraggio inseguito da millenni, da Babilonia a Lower Manhattan, da Giza alle ultramoderne capitali del Golfo Persico: il miraggio, che qui per certi versi assume la misura di un “iperoggetto”, per citare uno dei filosofi decisivi della contemporaneità come Timothy Morton, dell’architettura pura.
Essendo pura, questa idea di architettura del luogo, nel luogo e oltre il luogo, non è ovviamente esportabile, non è, se non in minima parte, propaganda. È arte, nel tempo e nello spazio, come ha scritto, proprio a proposito di De Maria, uno dei migliori cronisti del contemporaneo, Geoff Dyer.
Richard Serra, in un’intervista al New Yorker che risale all’inaugurazione dell’opera nel 2014, ha detto che “nessuno sa” quanto sarà lunga la vita del suo pezzo qatarino. Quello che oggi mi appare evidente è che nel momento in cui scomparirà, come rovina di un’altra forma di civiltà – per molti versi tuttora misteriosa – insieme a esso scomparirà anche quel deserto, che in fondo era fatto solo perché i monoliti d’acciaio potessero esistere, esattamente qui, esattamente così. Intorno a noi e, per concludere con Ben Lerner questa catena di citazioni (comunque utili per provare a costruire dei parametri intorno a certe esperienze del contemporaneo), nel mondo a venire.