Milano, 20 gen. (askanews) – Figura un tempo imprescindibile, oggi il sommelier è purtroppo presente solo nei ristoranti di altissima fascia, quelli che possono innanzitutto permettersi una cantina degna di questo nome e un rapporto non standardizzato e “superficiale” con il cliente. Avventore tra l’altro sempre più preparato e quindi più attento rispetto al passato, e più attratto dalla narrativa del vino che dalla descrizione della bottiglia. Da qui la ricerca dei ristoratori di personale di sala qualificato ma non “ingessato”, accogliente ma professionale, capace di interagire (in più lingue) in modo empatico e senza presunzione. In questi anni i sommelier, uomini e donne, “tagliati” dai locali, si sono reinventati come consulenti o dipendenti di aziende attive del mondo del vino e delle ristorazione, mentre altri sono diventati “wine-expert” e “comunicatori” in campo enogastronomico. Di questa trasformazione e non solo, askanews ne ha parlato con Sandro Camilli, presidente dell’Associazione italiana sommelier (Ais), che con il suoi oltre 40mila soci è la più grande associazione di professionisti del vino nel mondo. “Il problema sta nel fatto che il sommelier è visto oggi dall’imprenditore della ristorazione come un costo e non come un investimento: invece la persona che sta in sala, che promuove e valorizza il vino andando alla ricerca dei prodotti giusti, permette a quell’imprenditore di moltiplicare il reddito” spiega Camilli, aggiungendo che “in questi sessant’anni il mondo del vino è cambiato molto ma quello del sommelier rimane un ruolo fondamentale perché il vino è un protagonista della tavola e non può essere relegato al ruolo di comparsa. Invece il vino è poco promosso e poco valorizzato – prosegue – e se si escludono quei ristoranti che hanno fatto del servizio e dell’accoglienza la loro mission, troviamo carte dei vini redatte in maniera penosa, casuale e non aggiornata, perché al vino non viene data la stessa importanza attribuita al piatto preparato da uno chef”. Il presidente dell’Ais evidenzia poi un paradosso: “In questi ultimi vent’anni il livello culturale sul vino e sul cibo si alzato tantissimo e le trasmissioni dedicate a questo mondo hanno determinato un aumento dell’interesse e di conseguenza anche dei corsi, ma a fronte della crescita di attenzione e della capacità di degustare del consumatore, il livello delle strutture ricettive è rimasto sostanzialmente immutato”. “Insomma – chiosa – il consumatore è cresciuto ma gli imprenditori non si sono adeguati, e se in alcuni casi hanno valorizzato il piatto, non hanno fatto altrettanto con il vino”. Da diversi anni la platea di aspiranti sommelier che frequenta i corsi dell’Ais, è composta per l’85% circa di appassionati che si avvicinano al vino per curiosità, per cultura personale o per moda, e solo per il 15% da persone che lo fanno per professione. Un dato questo che rientra nel tema della mancanza di personale di sala che colpisce l’intero settore della ristorazione. “Senza professionalità oggi non si va da nessuna parte, ancor di più dopo la selezione arrivata con il Covid” puntualizza Camilli, che per rispondere alle esigenze dei locali top, pensa di offrire “un ulteriore grado di specializzazione, aggiungendo ai nostri tre livelli, un quarto ancor più approfondito, un master legato all’alta formazione”. La responsabilità per il ruolo da comprimario rivestito dal vino nell’horeca nazionale è anche di chi il vino lo produce. “Credo ci sia un concorso di colpa, perché i produttori hanno sempre investito poche risorse, energia e spazio alla comunicazione e al marketing: sono stati e rimangono restii, pensando, ad esempio, che le degustazioni rivolte al mondo horeca siano un costo perché il ritorno non è immediatamente tangibile”. In tema di promozione c’è un altro punto debole. “Abbiamo dei territori del vino meravigliosi e un patrimonio di biodiversità incredibile, unici al mondo, ma mancano da parte delle Istituzioni nazionali e degli Enti locali progetti seri di incoming e di enoturismo ” spiega Camilli, sottolineando che “invece di spendere soldi per portare il nostro vino in giro per il mondo, bisognerebbe pensare a portare gli stranieri qui a vedere dove e come lavoriamo e a provare i nostri prodotti”. “C’è poi un problema di brand Italia che nel mondo del vino è ancora poco conosciuto, quello della Francia rimane più forte e non basta dire che produciamo più di loro, perché il tema è quello del valore” prosegue Camilli, ricordando che “oramai in tutte le nostre regioni lo standard è altissimo: il vino buono lo fanno tutti anche grazie alla tecnologia, alle competenze e a tutti questi giovani che si sono formati, che hanno fatto vendemmie in tutto il mondo e poi sono tornati e hanno preso in mano e ribaltato le aziende di famiglia”. “Eppure – dice evidenziando un altro annoso problema nostrano – continuiamo a farci la guerra tra di noi, i produttori sono gelosi uno dell’altro e si combattono anche dentro i Consorzi, e ogni Regione fa per conto proprio: queste, sempre rimanendo al confronto con la Francia, sono differenze abissali”. Per il presidente dell’Associazione le strade sono due: “Serve fare sistema e imparare a comunicare la grande qualità che abbiamo raggiunto e le eccellenze che produciamo”. “Il vino è cambiato molto e cambierà ancora per il ‘climate change’ ma anche per riuscire ad accompagnare altri cibi e un modo diverso di mangiare. Oggi abbiamo vini contraddistinti da bevibilità ed eleganza e prevedo – aggiunge – che si andrà sempre più sui bianchi, sui frizzanti, sulle bollicine e sui rossi più facili, magari serviti a temperature più basse per facilitarne la beva”. Ecco allora fare capolino il tema del vino a bassa gradazione. “Dovremo inevitabilmente ragionarci sempre di più perché arriveranno stimoli da tutto il mondo – puntualizza – ma per quello che mi riguarda il vino deve però rimanere quella bevanda idroalcolica frutto della fermentazione alcolica: mi auguro che se si fa il vino analcolico non lo si chiami vino ma si usi un altro nome”. Infine il tema scottante del via libera europeo all’Irlanda per gli “health warning” sulle etichette degli alcolici. “Mi preoccupa fino ad un certo punto, la gente è oramai abituata a questo genere di avvertenze, a partire da quelle sui pacchetti di sigarette che non mi paiono abbiano scoraggiato la gente a fumare” spiega, precisando che “magari servirà un lavoro maggiore di comunicazione, ma questa è uno stimolo per fare capire che in una bottiglia di vino non c’è solo alcol ma anche arte, storia, cultura e tradizione, spiegando alla gente che bere troppo fa male e che serve consapevolezza. Anche quella che il proibizionismo non ha mai risolto nulla”.
Camilli (Ais): ristoratori puntano sul cibo senza valorizzare il vino
Askanews intervista presidente dell'Associazione italiana sommelier