Roma, 16 ott. (askanews) – Capacità di adattarsi e di autogestire le sfide fisiche, sociali ed emotive. L’Organizzazione mondiale della sanità definisce così il concetto di salute. Un assunto che, in alcuni casi, ha bisogno di regole ben precise. In Italia, sono sette milioni le persone con problemi di udito, corrispondenti all’11,7% della popolazione e, più in generale, l’ipoacusia riguarda, fra gli over 65, una persona su tre. Solo il 31% della popolazione ha effettuato un controllo dell’udito negli ultimi 5 anni, mentre il 54% non l’ha mai fatto. Dati che evidenziano un vero e proprio allarme sociale amplificato dalla vergogna di dover ricorrere a protesi spesso evidenti: “La tecnologia -spiega Gilberto Ballerini, audioprotesista di lunga data e autore del libro ‘Perché ci vuole orecchio’- ha fatto passi da gigante ma lo stigma per chi deve fare uso di apparecchi acustici è ancora rilevante. Eppure, farvi ricorso è proprio una questione di salute nel solco della definizione data dall’Oms”. Campagne pubblicitarie ammiccanti, talvolta aggressive, sguardi indiscreti, atteggiamenti di rifiuto possono contribuire ad alimentare una cultura scarsamente rivolta al sociale, stati depressivi, desiderio di non coltivare più alcun tipo di relazione: “Il problema -spiega ancora Ballerini- è proprio di questa natura e drammaticamente al passo con i tempi. In una società del tutto e subito, della perfezione a ogni costo, della competizione sempre e comunque, chi è in difficoltà va scartato, messo ai margini. Questo in generale, ma per chi ha problemi di udito il disagio aumenta. Non sentire ti allontana, ti rende solo, ti isola. E per uscire dalla gabbia in cui purtroppo ci si ritrova, si immagina che la protesi possa essere la soluzione. Per quanto la tecnologia ci metta oggi a disposizione strumenti raffinatissimi per mezzo dei quali è possibile ottenere pregevoli risultati, la mia esperienza dice che non si deve partire da qui, ma dalla persona. Perché se non si ragiona in questo modo, si rischia di creare nuove dipendenze o illusioni che poi svaniscono”. Bello o invisibile. Esiste già da tempo la possibilità di fare ricorso a protesi endoauricolari che negli ultimi anni sono sempre più performanti e spariscono all’interno dell’orecchio. Ma è davvero questo il modo di ritrovare la serenità perduta e di tornare a coltivare quelle relazioni temporaneamente abbandonate? “Il tema è delicato -dice Ballerini. Le protesi invisibili possono allontanare l’idea di mostrare una propria fragilità, ma in molti casi non rappresentano la soluzione più indicata. Penso ad esempio alle sordità percettive in caduta quelle dovute all’età, a eventi traumatici o su base circolatoria. Queste persone hanno difficoltà nel recepire le frequenze acute e le protesi endoauricolari non sono le più appropriate perché rischiano di far prevalere sull’ascolto naturale l’inevitabile effetto tappo. Naturalmente è il professionista che deve valutare ogni singolo caso in tutte le sue variabili (udito residuo, dimensioni e caratteristiche del condotto uditivo, possibilità di ventilazione degli inserti). Cosa fare allora? Sviluppare una vera e propria cultura del sentire, dando spazio al bello, considerando normale indossare una protesi visibile: “Se è vero che molte pubblicità -afferma Ballerini- propongono i modelli a scomparsa, è anche vero il contrario. Roma, 16 ott. (askanews) – Penso a quelle trasmissione televisive dove il conduttore indossa dispositivi con ricevitore appoggiandolo appunto sulle orecchie. Mi chiedo: se questo approccio risulta accettato, addirittura accattivante, perché vergognarsi di un apparecchio retroauricolare? La domanda è retorica in quanto a non essere accettato è il problema e l’idea di essere percepiti come persone che non capiscono. Si tratta di un retaggio culturale. Mi chiedo allora: perché non affidarsi al bello, utilizzando il design per rendere accettabile la protesi? Occorre insomma cambiare paradigma. Sentire, o meglio ascoltare, fa ritrovare sensazioni e emozioni che riaprono di nuovo alla vita. Immaginate di stare a teatro con una benda agli occhi o di ascoltare musica con gli occhi chiusi. Bene, le parole e i suoni arriveranno alla corteccia cerebrale in maniera decisamente più efficace, facendo vibrare il cuore”. La cultura del sentire, dunque. Che ha valore non solo per la persona ma anche per la comunità in cui quella persona vive: “La sordità -conclude Ballerini- ha un costo sociale. Se chi non sente si isola, la sua minore autonomia implica la necessità che la comunità di riferimento e lo Stato intervengano per proteggerlo. Anche per questo, chi consiglia le protesi dovrebbe essere consapevole della dimensione pubblica del suo lavoro. Non si tratta di vendere apparecchi, ma di accompagnare la persona in un percorso che diventi finalmente virtuoso. Per questo, si potrebbe pensare di separare il costo dello strumento da quello della prestazione. L’audioprotesista non può essere solo un commerciante. Il suo lavoro ha un impatto importante sulla salute della singola persona e sul suo mondo. Non bisogna mai dimenticarlo”.
Salute, basta vergogna. La sordità si combatte concultura del sentire
Ipoacusia riguarda, tra gli over 65, una persona su tre