Adrian Piper al PAC di Milano: stereotipo come patologia visiva – askanews.it

Adrian Piper al PAC di Milano: stereotipo come patologia visiva

La retrospettiva “Race Traitor” chiude il 9 giugno 2024
Giu 1, 2024
Milano, 1 giu. (askanews) – C’è tempo fino a domenica 9 giugno 2024 per visitare la retrospettiva che il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano dedica all’artista Adrian Piper (1948, New York), vincitrice del Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale di Venezia 2015. “Race Traitor” ripercorre oltre sessant’anni di carriera dell’artista, con più di cento opere e importanti prestiti internazionali provenienti da MoMA, Guggenheim di New York, MoMA di San Francisco, MCA di Chicago, MOCA di Los Angeles e Tate Modern di Londra.

Fulcro della sua pratica filosofica, artistica e attivista è il concetto di lotta permanente alla patologia visiva, contro lo stereotipo, il razzismo, la xenofobia, l’ingiustizia sociale e l’odio. Adrian Piper è stata capace di portare, all’interno della riflessione concettuale e dell’estetica minimalista, il discorso politico sulla società e sull’essere umano avvalendosi di strumenti diversi: dall’installazione al video, dalla fotografia al disegno, dalla performance al collage.

Nei suoi lavori l’artista solleva domande spesso scomode e chiede alle persone di confrontarsi con verità su se stesse e sulla società come in “What It’s Like, What It Is #1” del 1990: all’interno di un ambiente totalmente nero il visitatore sembra diventare l’oggetto dell’osservazione altrui. Attraverso delle finestre fittizie, e la minoranza ad osservare da fuori ciò che si trova all’interno dello spazio espositivo, gli spettatori, mentre ascoltano la voce singhiozzante di una giovane donna afroamericana che racconta la sua esperienza di discriminazione razziale sul posto di lavoro.

Lo stesso concetto ritorna nel 1991 nella nuova versione “What It’s Like, What It Is #3”: il video di un afroamericano offerto allo sguardo del pubblico, inscatolato in un parallelepipedo al centro della scena bianca, mentre nega una serie di stereotipi sulla propria identità.

E ancora le azioni di “My Calling (Card)” del 1986, per cui Piper fa stampare dei messaggi su cartoncino, sul modello dei biglietti da visita, riguardanti le affiliazioni razziali, in un caso, e il genere femminile, nell’altro. Questi testi, scritti in prima persona, venivano consegnati dall’artista, come educato ammonimento, a persone che assumevano, anche inconsapevolmente, atteggiamenti discriminanti nei suoi confronti.

La mostra si chiude con “Adrian Moves to Berlin” del 2007: ad Alexanderplatz per un’ora Piper improvvisa una danza sulle note dell’house music berlinese degli anni 2000 sotto gli sguardi dei passanti. Esprime così una leggerezza ritrovata in una città in cui un popolo precedentemente diviso in due dal muro ha saputo trovare delle forme di convivenza, anche grazie agli spazi deputati al ballo.