Fiuggi, 26 nov. (askanews) – Due giorni di negoziato e un accordo al ribasso. Sui mandati d’arresto spiccati dalla Corte penale internazionale a carico di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, i paesi membri del G7 trovano un’intesa di massima, pur partendo da posizioni differenti. La materia è spinosa e vanno studiate le carte. Non tutto, al momento, sembra chiaro: ci sono “molti dubbi giuridici” e l’applicazione delle decisioni della Corte resta per ora “molto teorica”, ha spiegato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Così, il testo adottato alla fine della ministeriale di Fiuggi, l’ultima sotto presidenza italiana, è la sintesi di una scelta, politica oltre che giuridica, che certifica un minimo denominatore comune e lascia a briglie sciolte gli Stati uniti, che non riconoscono l’autorità della Cpi e si sono smarcati da tempo. “Nell’esercizio del suo diritto alla difesa, Israele deve rispettare pienamente i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale in tutte le circostanze, incluso il diritto internazionale umanitario. Ribadiamo il nostro impegno nei confronti del diritto internazionale umanitario e rispetteremo i nostri obblighi”, si legge nella dichiarazione conclusiva.
Il caso che vede coinvolto il primo ministro israeliano ha tenuto banco al vertice che Antonio Tajani ha fortemente voluto ad Anagni e Fiuggi, in chiusura dell’anno di presidenza italiana del G7. La discussione sui mandati del Cpi è stata descritta come approfondita e interessante fin da ieri, quando sono stati coinvolti anche i capi della diplomazia del Quintetto arabo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Qatar ed Egitto). Ma la posizione degli Usa non è cambiata, e non poteva essere altrimenti: Washington non ha firmato lo Statuto di Roma. I Paesi europei, seppure con posizioni e sfumature differenti, hanno dovuto adeguarsi. E anche in questo caso, secondo l’alto rappresentante Ue per la Politica Estera, Josep Borrell, non avrebbero potuto, e non potranno, esimersi.
A forzare la mano, questa mattina, era stato proprio Borrell, che ha partecipato ai lavori. Tutti i Paesi membri dell’Unione europea hanno firmato lo Statuto di Roma, aveva detto. Dunque, questa “non è una cosa su cui si può scegliere”. “Chiedo agli Stati membri dell’Ue di rispettare gli obblighi previsti dalla legge internazionale. Se gli europei non sostengono la Cpi allora non ci sarà nessuna speranza per la giustizia”, ha poi rincarato. Solo in tarda mattinata, invece, in attesa di una breve dichiarazione alla stampa con il segretario di Stato Antony Blinken, Tajani ha chiarito la posizione italiana. Poche parole, ma nette. “Siamo amici di Israele, ma penso che dobbiamo rispettare il diritto internazionale”, ha detto.
Il ministro ha poi cercato di illustrare la posizione emersa anche durante la conferenza stampa finale. “Noi rispetteremo il diritto, ma bisogna vedere cosa dice il diritto. Bisogna capire se le alte cariche sono garantite o se sono al di fuori delle decisioni. Bisogna vedere bene e leggere le carte, capire i limiti, ci sono molti dubbi giuridici e la fattibilità mi pare molto teorica”, ha sottolineato, precisando che “Netanyahu non verrà mai in un paese dove può essere arrestato”. Secondo il titolare della Farnesina, dunque, l’eventuale fermo del capo del governo israeliano resta “molto velleitario e inattuabile”, “almeno fino a quando sarà primo ministro in carica”.
Da parte sua, Netanyahu sembra essere più interessato a raggiungere i suoi obiettivi di guerra, a Gaza e in Libano. Questa sera il primo ministro è impegnato in una riunione del gabinetto di sicurezza israeliano per l’eventuale via libera all’accordo di cessate il fuoco con Hezbollah. Il governo dello Stato ebraico, secondo un funzionario a conoscenza del dossier, sarebbe arrivato alla conclusione “di non avere altra scelta se non quella di accettare un accordo di cessate il fuoco” in Libano “per il timore che l’amministrazione americana possa punire Israele con una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu nelle sue ultime settimane” in carica.
I segnali positivi in vista dell’intesa sono stati ricevuti con soddisfazione dai ministri del G7. “Ora è il momento di concludere un accordo diplomatico e accogliamo con favore gli sforzi compiuti in tal senso”, hanno precisato nel comunicato finale della ministeriale, allarmati dal crescente numero di vittime civili e dalla distruzione di infrastrutture essenziali, tra cui ospedali e centri sanitari. Con Borrell che ha chiosato: “non ci sono scuse oggi per non attuare il cessate il fuoco, altrimenti il Libano crollerà”.
L’accordo, in effetti, sembra ormai a un passo e potrebbe essere annunciato già tra qualche ora. Anche gli ultimi nodi al pettine si stanno sciogliendo. Uno riguarderebbe la presenza della Francia nel comitato di controllo dell’attuazione dell’intesa, guidato dagli Stati Uniti. Beirut preferirebbe che partecipassero anche Parigi e Roma, mentre Israele si è sempre opposto all’idea di un coinvolgimento francese. Netanyahu avrebbe però ricevuto rassicurazioni sul ruolo e i compiti di Parigi. Dunque, nelle cancellerie occidentali filtra ottimismo. “Siamo pronti come governo, a fare tutto ciò che è necessario per ritornare alla risoluzione 1701”, ha spiegato da parte sua, in un’intervista al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib. “Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco prima di inviare le nostre truppe”. Beirut ha già 4.500-5.000 soldati sul campo e intende inviarne altri 5.000 a Sud. L’obiettivo è poi lavorare con Unifil per essere certi che non ci siano più uomini di Hezbollah nella zona, secondo quanto prescrive la risoluzione 1701. Bou Habib punta al risultato pieno: nessuna presenza di armi “senza il consenso del governo libanese” e “nessuna autorità diversa da quella dell’esecutivo”.
di Corrado Accaputo