Roma, 18 set. (askanews) – Visioni divergenti sul Financial Times riguardo al rapporto sulla competitività in Europa preparato da Mario Draghi. Ieri la più nota delle firme del quotidiano finanziario Gb, Martin Wolf, esprimeva un forte sostegno alle tesi dello studio, titolando “Draghi sta cercando di salvare l’Europa da sé stessa”.
Lo studio dell’ex presidente del Consiglio italiano e della Bce “mette l’Unione europea di fronte a una sfida esistenziale”. Draghi ha presentato il rapporto la scorsa settimana a Bruxelles e, di nuovo, ieri all’Assemblea plenaria del Parlamento Ue, a Strasburgo.
A inizio articolo il decano del Ft riprende – per l’ennesima volta – la celebre frase del “whatever it takes”, pronunciata da Draghi nel 2012 in piena crisi dei debiti pubblici. E concorda con le principali diagnosi dello studio, tra cui sui temi di frammentazione e eccessiva regolamentazione, che impediscono all’Europa di tenersi alla pari con Usa e Cina sull’innovazione.
Ma poche ore dopo, oggi, un’altra analisi sullo stesso quotidiano – intitolata “Perché l’Europa non riuscirà a recuperare sugli Usa” – dipinge un quadro molto meno elogiativo, anzi decisamente critico, del rapporto Draghi. A firmarla è Janan Ganesh, che cura una rubrica settimanale e che rispetto a Wolf ha un profilo meno da economista e più orientato su politica e cultura.
“L’America ha vantaggi culturali e strutturali che i governi (Ue) non possono compensare”, sostiene. L’Ue ha un bilancio comune all’1% del Pil, anche se si riuscisse ad aumentarlo – cosa tutta da vedere – resterebbe lontanissimo dal bilancio federale Usa. In Europa si dà per scontato un welfare che agli americani è sconosciuto. Terzo, è vero che in Europa ancora non un autentico mercato unico, ma anche se ci fosse non c’è una lingua unica come negli Stati Uniti, semplicemente l’Ue “non è una nazione”.
“La ritrosia alle riforme in Europa è inseparabile dalla dolcezza della vita per un numero sufficiente di persone”. E secondo Ganesh “il rapporto Draghi non sarà l’ultimo” di questo genere, “ogni volta che ne viene pubblicato uno se ne elogiano i contenuti ma si sollevano dubbi sull’attuabilità”. E “nella misura in cui un piano risulta improbabile (a realizzarsi) a livello politico e culturale, non è un buon piano”, conclude.