Roma, 12 set. (askanews) – Danni sanitari e ambientali dal commercio globale di abbigliamento di seconda mano in Ghana. La denuncia arriva dal rapporto di Greenpeace Africa e Greenpeace Germania, “Fast Fashion, Slow Poison: The Toxic Textile Crisis in Ghana”, che documenta l’impatto degli indumenti usati sull’Africa occidentale.
Ogni settimana, secondo il report, circa 15 milioni di vecchi vestiti arrivano a Kantamanto, secondo mercato di abiti usati del Ghana, di cui quasi la metà è invendibile. Per volumi importati, sostiene Greenpeace, il Ghana è anche la seconda destinazione di abiti di seconda mano dall’Europa. E l’Italia è la nona esportatrice a livello mondiale, terza in Ue, dopo Belgio e Germania. I primi dieci brand di capi invenduti, secondo il report, sono marchi del fast fashion come H&M, Zara, Primark e Shein. Molti dei vestiti usati che arrivano in Ghana, si denuncia, finiscono così in discariche abusive o vengono bruciati nei lavatoi pubblici, contaminando l’aria, il suolo e le acque, mettendo a rischio la salute delle comunità locali.
Le analisi condotte dall’organizzazione ambientalista hanno inoltre rilevato che circa il 90% degli abiti è costituito da fibre sintetiche, contribuendo alla diffusione di microplastiche. Greenpeace Africa chiede azioni immediate e a lungo termine per affrontare la crisi, ad esempio limitando l’import ai soli indumenti che possano essere realmente riutilizzati. Chiede inoltre che i marchi di moda siano responsabili dell’intero ciclo di vita dei loro prodotti e che si sostenga lo sviluppo di un’industria tessile sostenibile in Ghana.