Roma, 1 ago. (askanews) – La scena iniziale è quella – reale, desiderata o negata – di ogni infanzia: un padre spinge la figlia sull’altalena. Lei vola in alto, ad occhi chiusi, con il cuore in gola e l’incessante richiesta “più forte, più forte”. E’ il giorno del suo compleanno, la famiglia è in vacanza vicino a un caseificio abbandonato in riva a un lago. La spensieratezza del gioco si incrina nel momento in cui lasciandosi andare all’indietro la bambina non sente più le mani sulla schiena, il respiro dietro il collo: l’altalena va su e va giù ma suo padre non c’è. Sparito, volatilizzato, dietro le sue spalle solo “alberi neri seccati dal sole e fili d’erba ridotti in cenere”. “Vita degli anfibi” (Alter ego) di Piero Balzoni non è né un giallo né un romanzo sulla scomparsa del padre ma piuttosto il racconto di un’assenza e della capacità dei ricordi di ingannare, di illudere, di deludere.
Le indagini poliziesche scattano immediatamente, ma girano a vuoto perché non è quello il punto, non è la tensione verso la spiegazione, verso la soluzione a muovere tutto quanto, piuttosto, le mille domande, infittite di incertezze e infantili sensi di colpa, che sgorgano nella testa della protagonista conferendo alla storia un ritmo favolistico che sovrasta ogni altro genere. Attraverso i ricordi della figlia e della madre – le due protagoniste del romanzo che per volere dell’autore non hanno un nome, quasi a sottolineare la scelta di non avere un’identità precisa – viene narrata una scomparsa e la faticosa e, a tratti mendace, ricerca dello scomparso durante la quale cambia, inevitabilmente, chi resta. La madre inizia ad estraniarsi da tutto, la bambina diventa una ragazza e poi una donna che tornerà sulle rive del lago dove è scomparso il padre trovando, ancora una volta, un ambiente diverso rispetto a quello immaginato o ricordato.
Il lago non è più quello dell’infanzia, quello degli anfibi così capaci di adattarsi ad ogni territorio e ad ogni clima ma al tempo stesso messi a rischio, nella loro fragilità, dall’uomo. Il lago – anch’esso senza nome – è l’altro grande protagonista del romanzo ed è il simbolo della natura sopraffatta dall’uomo e dalla sua capacità di inquinare e di rovinare. Ma, sempre nel tono che anima tutto il libro, è anche un luogo magico e incantanto: “In fondo al lago c’è una città. La città che l’acqua ha sommerso tanti anni fa. E dentro a questa città, in una cattedrale sfavillante, c’è una statua. E’ la statua del dio del lago e se riesci a parlarci lui può fare avverare un tuo desiderio. Come faccio a parlarci? Devi portargli un dono di luce”.
Cercare un padre, cercare un uomo diventa dunque cercare un senso, nel tentativo disperato di colmare l’assenza per raggiungere la fase adulta attraverso una metamorfosi dolorosa e irrinunciabile. Perché, come recita l’epigrafe del libro – libera citazione dal personaggio di Rebecca coniglio nel cartone animato Peppa Pig – “nessuno può sfuggire alla propria ombra”.