Venezia, 16 apr. (Askanews) – L’immagine simbolo è il Padiglione centrale, completamente ricoperto dalle pitture amazzoniche del collettivo Mahku, che ha portato lo spirito della foresta, degli animali e delle comunità indigene a colonizzare il simbolo della Biennale di Venezia. In un circuito di ri-apertura al mondo e alle sue pluralità, oltre che di restituzione, che sembra essere il filo conduttore della 60esima Biennale d’arte intitolata “Foreigners Everywhere – Stranieri ovunque” e diretta dal primo curatore latinoamericano della storia, il brasiliano Adriano Pedrosa. “Credo sia un lavoro meraviglioso – ci ha detto Pedrosa – ma aspettiamo di sentire dalle persone le loro impressioni e come interpreteranno quest’opera”.
Come principio guida, la Biennale Arte 2024 – che si è aperta con la decisione di Israele di non aprire il proprio padiglione fino al raggiungimento di uni cessate il fuoco a Gaza e alla liberazione degli ostaggi – ha privilegiato artisti che non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale, e attraversando gli spazi espositivi si percepisce un senso di ricerca, di apertura e pure di necessità. Si sente la forza primordiale, ma attualissima, dei colori e delle voci che vengono da lontano.
Molti degli artisti presenti ci hanno detto che si sono riconosciuti immediatamente nell’idea di “straniero” scelta dal curatore, anche perché molti di loro vengono da territori che spesso sono confini, geografici o metaforici, del mondo contemporaneo. E sui confini si annidano le tensioni e le frizioni, che questa Biennale racconta soprattutto attraverso i ragionamenti sul corpo, sull’identità, sulla repressione e la diversità: siano di genere o orientamento sessuale, siano tecnologiche o politiche. Lo spazio del grande palcoscenico del contemporaneo si apre (quasi) per la prima volta a chi, straniero, non aveva avuto voce finora.
“È un’espressione politica, anzi un’espressione che ha una dimensione politica, ma ‘Stranieri ovunque’ – ha aggiunto il curatore – ha anche una dimensione poetica e una linguistica. Non sto usando l’espressione italiana o quella inglese, le uso sempre insieme, una accanto all’altra, proprio perché mi interessa anche l’aspetto delle diverse lingue”.
A partire dalle scritte luminose del collettivo Claire Fontaine, la mostra si snoda attraverso i luoghi e il tempo, con una forte presenza di artiste donne e di collettivi, con una sensazione di urgenza che alimenta il lavoro e prende forme diverse, dalle grandi installazioni alle fotografie, dalle performance ai murales. Come quello del collettivo indiano Aravani, che unisce donne cisgender e transgender, e che con la forza politica dei colori racconta storie di libertà, diritti ed emancipazione possibile.
“La mia mostra – ha concluso Pedrosa – ha artisti provenienti da 80 diversi Paesi e tra questi anche Stati con non sono ufficialmente nazioni, come Hong Kong, Portorico e la Palestina. L’esposizione durerà sette mesi e sono certo che molte cose cambieranno, cambieranno le letture e le interpretazioni, le recensioni e spero che molte persone imparino qualcosa da questa mostra”.
La sensazione è che questa Biennale, pur riprendendo strutture formali riconoscibili, abbia spinto il confine decisamente più avanti, abbia messo l’Occidente di fronte alle reali proporzioni del mondo; alle istanze di giustizia, sociale e climatica in primo luogo, che non possiamo più ignorare; al sempre più evidente bisogno di un paradigma che vada oltre il Realismo capitalista per aprire nuovi spazi. Nei quali gli “stranieri ovunque” diventiamo anche noi. E forse partendo da lì potremo essere liberi.