Roma, 21 lug. (askanews) – Da diversi giorni la signora Elena Improta, madre di un ragazzo con gravissima disabilità, ha reso pubblica la sentenza definitiva di un procedimento giudiziario intentato contro la struttura sanitaria dove era nato suo figlio che la condanna a pagare le spese processuali per una somma di circa 300mila euro. La causa, decisa dalla corte d’appello di Roma, riguardava eventuali responsabilità sanitarie durante il parto, che avrebbero provocato danni, generando la condizione di disabilità ad altissima necessità assistenziale di Mario.
Dopo la sentenza la signora ha avviato uno sciopero della fame. La dichiarazione di associazioni, sindacati ed esponenti politici negli ultimi giorni non l’ha fermata. Oggi due compagnie assicurative – informa Elena – per “motivi umanitari” hanno deciso di rinunciare al recupero della quota di spese processuali liquidate dalla corte d’appello della Capitale. Per Elena è un passo positivo quello compiuto dalle due società, “di coscienza responsabile che saluto positivamente e ringrazio”.
Ma ad aver ottenuto una quota di risarcimento ci sono una altra società assicurativa, la struttura medica, il dottore e gli eredi del pediatra. Per questo la signora continua lo sciopero della fame “in azione di dialogo non violento con tutte le parti coinvolte per dar voce a chi non ce l’ha, per rivendicare il diritto alla vita, ad una vita dignitosa”.
Per il figlio della signora Elena al compimento dei 3 mesi è arrivata la diagnosi: non parlerà, non camminerà, non potrà studiare, lavorare. “Avevo 26 anni ed è cominciata la nostra esistenza di diversità. Forse abbiamo avuto pessimi consiglieri, ma tutti i medici interpellati, da subito ed ancora oggi con prove certe a livello diagnostico, hanno escluso qualsiasi forma di malattia rara, genetica, degenerativa. Tutto ha – dopo varie perizie – portato ragionevolmente a confermare il nesso tra parto e sofferenza ipossico ischemica (assenza di ossigeno), ma non il nesso di negligenza dei medici e della clinica. Erano altri medici, la clinica aveva un’altra proprietà e adesso dopo tre decenni sono stanca di cercare colpevoli”.
Ma la verità giudiziaria è altra. In una nota la signora Elena ha detto: “Dopo 27 anni, ripeto 27 anni abbiamo perso la causa. Ci sta e, pur consapevole del fatto che la nostra verità non era compatibile con quella giudiziaria, ho accolto il verdetto con grande rassegnazione e rispetto per la giustizia. Dopo il verdetto è arrivata la condanna, violenta e inappellabile, dove mi si impone di pagare quasi 300mila euro di spese legali. Una cifra, lievitata con il passare degli anni, che io non ho (per assistere mio figlio ho dovuto rinunciare al lavoro), e non posso affrontare. Mi appello all’azienda sanitaria ed a tutte le controparti: Avete bisogno dei beni di una persona disabile? Volete veramente pignorare la casa destinata al durante e dopo di noi dove abitano persone adulte disabili, che hanno trovato lì una situazione di vita accettabile?”