Milano, 3 mag. (askanews) – Riassumere in una sintesi accettabile l’esperienza culturale e politica di un personaggio articolato e complesso come Fanfani è tutt’altro che impresa facile. Una impresa nella quale si è cimentato lo storico e giornalista Gianfranco Peroncini con il libro “Il pane quotidiano – Fanfani e il sovranismo cattolico – la sfida del terzo millennio” edito da Controvento.
Peroncini è partito con il coniugare il percorso spirituale, culturale e politico di questo “cavallo di razza” democristiano con il focus della Guerra fredda, chiave di volta della prima Repubblica nella quale “la trama e l’ordito della sua personale traccia esistenziale e storica si sono intrecciati strettamente, disegnando lucide previsioni talvolta anche in aspra controtendenza rispetto ai suoi colleghi di partito. Lucidità che affonda le radici in una solida e strutturata formazione religiosa”.
Nel libro Peroncini passa in rassegna tanti aspetti del pensiero e della politica di Fanfani, come ad esempio il suo rapporto con il comunismo, di cui aveva previsto l’implosione, fino al ricordare le tante iniziative sociali ed economiche attibuibili al leader democristiano, senza scordare che, ricorda il giornalista, dobbiamo a Fanfani i primi due commi dell’articolo 1 della Costituzione italiana.
Poi il giornalista si sofferma a lungo sulla terza via, tra capitalismo e comunismo, proposta da Fanfani. “Con la sua proverbiale concretezza – scrive Peroncini – Fanfani indicava tra gli strumenti di intervento pubblico l’azione e l’impegno dello Stato nella vita economica nazionale che con la sua azione amministrativa e legislativa nel campo delle concessioni, del credito, dei prezzi e della tassazione doveva impedire la formazione e l’esercizio di monopoli nocivi all’efficienza del sistema economico e alla libertà dei cittadini”.
Un’analisi dettagliata e complessa di una figura preminente della politica democristiana del dopoguerra quella di Peroncini, il quale non vuole fare di Fanfani un “santino”. “Come tutti i politici, in particolare i cosiddetti “cavalli di razza” della Dc, non fu esente da ambiguità, astuzie, connivenze, trame e quant’altro. Ma, come del resto Enrico Mattei, in lui prevalse sempre l’obiettivo di un bene più grande, giusto o sbagliato che fosse, al di là del suo arricchimento personale”.