Roma, 20 mar. (askanews) – La visita del presidente cinese Xi Jinping in Russia iniziata oggi, oltre ad avere lo scopo di elevare il ruolo di Pechino nello scenario internazionale inevitabilmente marcato dal conflitto ucraino, rappresenta un’occasione per consolidare il nuovo stato delle relazioni tra Pechino e Mosca e per testare fino a che punto questi rapporti possano evolversi, magari arrivando a una vera e propria alleanza anche alla luce di una nuova polarizzazione in corso a livello globale. La storia, però, non depone a favore di questa evoluzione.
Una Cina, che teme di essere accerchiata da un punto di vista geopolitico dalla manovra a tenaglia americana, ha certamente bisogno che una solida Russia faccia da argine al nuovo, impetuoso “vento dell’Ovest”. Anche alla luce dei piani di riconquista di Taiwan. In questo senso, le gravi battute d’arresto russe in Ucraina rappresentano un segnale sinistro per Xi, appena riconfermato per un inedito terzo mandato presidenziale, e il leader cinese vedrebbe come la peste un’eventuale destabilizzazione della Russia.
Tuttavia non dobbiamo pensare a Mosca e Pechino come alleati naturali. Anzi, la storia dei loro rapporti ci racconta il contrario.
Fu attorno alla metà del XVII secolo che la Russia degli Zar e la Cina dell’impero Qing (manciù) vennero a contatto. Insediamenti russi si crearono nel bacino del fiume Amur e le truppe imperiali cinesi li respinsero. Cosacchi e manciù si scontrarono più volte, finché nel 1689 i due imperi fimarono il Trattato di Nerchinsk con il quale si fece un primo sforzo per fissare i confini.
Il tentativo non riuscì, in particolare perché non si poté collocare la Mongolia interna nel quadro di queste relazioni. Così Pietro il Grande sollecitò il Celeste Impero a chiudere la questione e si arrivò a un secondo trattato, nel 1729, firmato a Kyakhta. Ma anche quel documento non risolse il problema.
A complicare le cose, poi, ci si misero le potenze occidentali e la Gran Bretagna in particolare. Il XIX saecolo fu caratterizzato dal disfacimento dell’Impero Qing, dilaniato dalle concorrenti mire delle potenze occidentali, compresa la Russia. E, alla fine del secolo, nel frastagliato scenario cinese, mise il naso anche il Giappone, nel bel mezzo della frenetica modernizzazione promossa dall’imperatore Meiji. Nel 1895 le forze nipponiche sconfissero quelle cinesi nella Prima guerra sino-giapponese. Ma la Russia, sotto la guida del potente ministro delle Finanze Sergey Witte, siglò un’alleanza con la Cina (il cosiddetto trattato Li-Lobanov) e si unì a Gran Bretagna e Francia in un’azione per impedire a Tokyo d’impossessarsi della penisola di Liaodong e di Port Arthur, innescando in Tokyo un senso della vittoria mutilata che fu il motore nel 1904-1905 della Guerra russo-giapponese.
In quel conflitto, per la prima volta, una nazione asiatica riuscì a sconfiggere una delle principali potenze militari europee. La Russia zarista cadde in una fase rivoluzionaria, ma lo stesso accadde in Cina. Nel 1912 la Dinastia Qing fu rovesciata e fu istituita la repubblica. Nel 1917 accadde lo stesso alla Dinastia Romanov e, dopo una guerra civile, fu istituita l’Unione sovietica. Si entrò così in una nuova fase per entrambi gli ex imperi.
La Cina s’impantanò in un’infinita guerra civile, con il peso anche delle invasioni giapponesi. Nel 1924 l’URSS, grazie all’azione del ministro degli Esteri Georgy Chicherin, stabilì relazioni formali con la Repubblica di Cina, dopo che tre anni prima Mosca aveva sostanzialmente imposto al Partito comunista cinese, da poco nato, un’alleanza con il Partito nazionalista (Kuomintang) del generale Chiang Kai-shek. Nel 1926, però, Chiang ripudiò l’alleanza, rimandò a casa i consiglieri militari sovietici, e iniziò lo scontro con il Pcc che portò all’infinita guerra civile.
Mosca ovviamente diede il suo sostegno ai comunisti, che negli anni ’30 cominciarono a spingere sotto la guida del leader Mao Zedong. Ma, a rimescolare ancora le carte, ci pensarono i giapponesi, che nel 1931 crearono (al confine con l’URSS) lo stato-fantoccio del Manchukuo e fecero precipitare la Cina in una guerra immane, che terminò di fatto solo con la disfatta nipponica nel 1945. La seconda guerra mondiale costò all’URSS oltre 20 milioni di morti e il periodo che va dagli anni ’30 alla fine del conflitto mondiale portò alla Cina qualcosa come oltre 35 milioni di morti.
Dopo la comune vittoria contro i giapponesi – anche se i sovietici entrarono in guerra contro Tokyo soltanto l’8 agosto 1945 (giorno del bombardamento atomico di Nagasaki), due giorni prima della resa nipponica, e invasero la Manciuria in una continuazione del conflitto contro i ‘falchi’ giapponesi dell’Armata del Kwantung fino a settembre di quell’anno – i russi si ritrovarono in una posizione di forza rispetto a Pechino. Il 14 agosto 1945 fu firmato il Trattato di amicizia e di pace tra l’Unione sovietica e il governo nazionale cinese. Ma intanto l’effimera collaborazione ristabilita tra Kuomintang e Pcc era più che terminata ed era ripresa la guerra civile. Il primo ottobre 1949, Mao proclamò la Repubblica popolare cinese a Pechino, mentre i nazionalisti di Chiang nel 1950 si rifugiarono a Taiwan istituendo la Repubblica di Cina.
I primi anni post-bellici, tra Pechino e Mosca furono caratterizzati dalla retorica dei paesi socialisti fratelli. Con non pochi mal di pancia, l’URSS aiutò la Rpc nella ricostruzione, nell’industrializzazione ma anche sul fronte dello sviluppo del nucleare. Nel 1956, però, Mao non aderì alla destalinizzazione promossa a Mosca da Nikita Krushev. Inoltre emersero diverse questioni politiche e ideologiche che divaricarono le posizioni tra i due paesi comunisti. Krushev vedeva Mao come un estremista, criticava la Rivoluzione culturale e il Grande Balzo in avanti. Mao invece arrivò a valutaree la crisi dei missili a Cuba nel 1962 come un caso avventurismo sovietico e, alla fin fine, come una sconfitta per Mosca. Inoltre restava aperta la questione dei confini, con non rare schermaglie anche armate sui due fronti. Nel 1969 ci fu una guerra – non dichiarata formalmente – al confine per il controllo dell’isola di Zhenbao (Damansky) sul fiume Ussuri, con un migliaio di morti cinesi e un centinaio russi.
Ma la vera spaccatura avvenne nel 1972 quando, in seguito alla cosiddetta “diplomazia del ping pong”, Pechino aprì le relazioni con gli Stati uniti con la storica visita del presidente americano Richard Nixon. Cina e URSS si trovarono su fronti diversi e i rapporti divennero aspri, resi ancora più duri dalla competizione a suon di bombe in Vietnam e Cambogia.
Anche dopo la morte di Mao, nel 1976, le cose non migliorarono. Sotto la guida di Hua Guofeng prima e di Deng Xiaoping poi la Cina avviò il processo di riforme economiche. L’URSS, dal canto suo, andò verso la decadenza e quando il leader Mikhail Gorbaciov tentò la via della riforme democratiche, contribuì a innescare in Cina le proteste giovanili che culminarono nella strage di piazza Tiananmen. Anche in questo caso, Mosca e Pechino si ritrovarono su fronti opposti: Gorbaciov puntò alla democratizzazione ma fallì sulle riforme economiche, Deng respinse anche con l’uso della forza le spinte democratiche ma lavorò intensamente sul fronte economico.
Dopo la caduta dell’URSS, venne creata la Federazione russa, mentre la Cina continuò in maniera discontinua il suo processo di riforma. Nel 1991 fu demarcato il confine terrestre, nel 2001 firmato un Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole, poi rinnovato per altri cinque anni nel 2021.
La fine della guerra fredda ha però modificato nuovamente il quadro globale.
Di fronte a una superpotenza e un mondo unipolare, gli Stati uniti, la politica della Cina, che sta diventando a sua volta potenza globale, presenta convergenze con quella russa, la quale cerca di mantenere una presa sulla sua regione di riferimento e un’influenza globale. Eppure, anche in questa cornice, si rilevano punti di frizione, per esempio rispetto all’influenza sui paesi dell’Asia centrale, con le loro importanti risorse.
Però è proprio il tema delle risorse – energetiche, alimentari, tecnologiche – a spingere le due potenze confinanti verso lo sviluppo di una relazione “speciale”, sebbene non in grado (finora) di diventare una vera e propria alleanza. Per quanto, nella visita di Vladimir Putin del 4 febbraio 2022 a Pechino, in occasione dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali, sia stato affermato un principio di amicizia “senza limiti” tra Russia e Cina, in realtà l’invasione dell’Ucraina solo venti giorni dopo è stata vista da Pechino come un problema. Secondo le intelligence occidentali, Putin non ha seguito il suggerimento di Xi di rimandare l’attacco e l’imbarazzo cinese è stato palpabile. In sede Onu, Pechino non ha votato a favore di una risoluzione di condanna nei confronti di Mosca, ma neanche contro. Si è astenuta.
Soltanto a un anno dall’inizio della guerra ucraina, Pechino ha promosso un’iniziativa mettendo sul tavolo un suo “position paper”, qualcosa di più e qualcosa di meno di un piano di pace. Un’ambivalenza che permane costante nei rapporti con la Russia: necessario possibile alleato, certo, ma di cui la Cina si fida poco.
(di Antonio Moscatello)