Roma, 2 feb. (askanews) – Lunedì 30 gennaio mi trovavo proprio all’ospedale di Alatri e quando sono uscito ho visto l’elisoccorso atterrare. Ho pensato fosse accaduto qualcosa di grave, ma non ho realizzato quanto stesse avvenendo in quegli istanti. C’erano dei giovani, uno è passato accanto a me dicendo che si trattava di un’emergenza, poi urlava: “Hanno ucciso mio fratello!”. Era in preda alla rabbia e al dolore. Pensavo si trattasse di un tragico incidente d’auto, invece si trattava della morte che ora è diventata un caso nazionale noto a tutti. Non so perché mi trovassi proprio là in quel momento e quelle immagini concitate mi sono rimaste dentro, nello sconcerto e nell’incapacità di decifrare la situazione che solo più tardi avrei compreso.
Thomas, 19 anni compiuti lo scorso dicembre ora non c’è più. Il proiettile che lunedì sera lo ha colpito in testa gli è stato fatale e si è arreso dopo un’agonia di oltre 40 ore, ricoverato in condizioni disperate. Con la memoria torno sempre ad Alatri quando sei anni fa Emanuele Morganti 20 anni, venne brutalmente pestato fuori da una discoteca e ucciso dal “branco”, massacrato di botte il 24 marzo del 2017 all’uscita di un discobar in pieno centro storico, senza che nessuno sia intervenuto a difenderlo. Emanuele, operaio, era andato a ballare con la fidanzata e venne assassinato a colpi di calci e pugni perché’ aveva cercato di fare da paciere a seguito di un alterco tra un cliente ed un buttafuori del locale. Non troppo distante da Alatri è avvenuto un altro caso di cronaca nazionale che coinvolto tutti: la morte di un giovane che sprizzava gioia, voglia di vivere e bontà, Willy Monteiro 21 anni, picchiato a morte nella notte a Colleferro, vicino Roma, il 6 settembre 2020.
Nel mio vivere accanto ai giovani e tra i giovani in difficoltà da oramai venticinque anni, percepisco una escalation di violenza e di problematiche che non ha eguali. Davvero siamo dinnanzi ad una situazione assurda. Ho assistito ad un’esecuzione in piena regola d’innanzi a me, ma era l’anno 2001 e mi trovavo in una favela in una delle zone più povere del Mondo, in una cittadina del Nord-est del Brasile. Un uomo era stato improvvisamente ucciso all’esterno del bar con un coltello piantato in pieno petto, nel fuggi fuggi generale. Per quanto cruenta sia stata la scena, in quella situazione estrema di povertà, si sa e ci si può aspettare che ti minaccino con una pistola per un paio di scarpe firmate. Ma quanto sta accadendo da un po’ di anni in Italia e dove mi trovo ora da un po’ di anni, tra Frosinone e Roma, è un aggravarsi del disagio nel mondo giovanile con un aumento esponenziale della violenza e delle polidipendenze. Sono abituato a guardare al positivo, a quanti giovani tornino a vivere, rinascano, grazie ai progetti di prevenzione nelle scuole e al percorso nelle comunità Nuovi Orizzonti fondate da Chiara Amirante. Ma devo anche dire che sono, come tutti coloro che operano in prima linea in questo settore, sconvolto, da come l’indifferenza regni sovrana dinnanzi ad una emergenza educativa e sociale che più volte ci lancia segnali di estrema gravità e che le istituzioni e noi tutti come cittadini non cogliamo in modo adeguato e coeso.
Ieri ho seguito il viaggio apostolico missionario e di pace di Papa Francesco in Africa. C’è una testimonianza tra tante che mi ha colpito. Mi ricorda alcune storie di giovani donne costrette alla prostituzione schiavitù in Italia, qui da noi, che ci hanno fatto confidenze simili. Agghiaccianti. Chiara Amirante ne raccontate alcune nei suoi libri e nei suoi interventi pubblici. Non sono violenze lontane da noi, ma che avvengono accanto a noi, ogni giorno! Non oso immaginare il cuore del Papa quando ieri ha raccolto le testimonianze delle vittime delle violenze nel Paese martoriato da attentati e guerriglia.
Come ha scritto Fabio Marchese Ragona per il TGCom24: “Una donna, Emelda, ha raccontato al pontefice di essere stata violentata, tenuta nuda durante la prigionia come schiava sessuale e costretta a mangiare carne umana. Artefice dei continui abusi sulla popolazione è spesso il gruppo armato M23, che Kinshasa, l’Onu e molti osservatori internazionali ritengono essere sostenuto dal vicino Rwanda.
“I ribelli – ha raccontato Emelda al Papa – avevano fatto un’incursione nel nostro villaggio di Bugobe; era un venerdì sera del 2005. Hanno fatto irruzione nel villaggio, prendendo in ostaggio tutti quelli che potevano, deportando tutti quelli che trovavano, facendo loro portare le cose che erano state saccheggiate. Durante il tragitto, hanno ucciso molti uomini con proiettili o coltelli. Le donne invece le hanno portate al parco di Kahuzi-Biega. All’epoca avevo 16 anni”. Da quel momento è iniziato per lei l’inferno. “Sono stata tenuta come schiava sessuale e abusata per tre mesi. Ogni giorno, da cinque a dieci uomini abusavano di ciascuna di noi. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi. A volte mescolavano le teste delle persone con la carne degli animali. Questo era il nostro cibo quotidiano. Chi si rifiutava di mangiarlo veniva fatto a pezzi e gli altri erano costretti a mangiarlo. Vivevamo nudi perché non scappassimo”. Emelda ha subito tutto questo fino al giorno in cui, “per grazia, riuscii a fuggire quando ci mandarono a prendere l’acqua dal fiume”. Di li’ il ritorno a casa, dai genitori, le cure all’ospedale di Panzi, a Bukavu, specializzato nel trattamento dei sopravvissuti alla violenza. Emelda parla anche del sostegno ricevuto dalla Chiesa. “Oggi vivo bene come una donna realizzata che accetta il suo passato. La nostra Provincia è un luogo di sofferenza e di lacrime, ma oggi è pronta a perdonare: mettiamo sotto la croce di Cristo questi abiti degli uomini in armi che ancora ci fanno paura – ha detto compiendo questo gesto davanti a Francesco – per averci inflitto innumerevoli atti di violenza atroci e indicibili, che continuano ancora oggi. Vogliamo un futuro diverso. Vogliamo lasciarci alle spalle questo passato oscuro e poter costruire un bel futuro. Chiediamo giustizia e pace. Perdoniamo i nostri carnefici per tutto quello che hanno fatto e chiediamo al Signore la grazia di una convivenza pacifica, umana e fraterna”.
Non so perché mi trovassi ad Alatri il 30 gennaio 2022 mentre Thomas lottava tra la vita e la morte. Non so perché accadano atrocità del genere. Non so perché a pochi soldi si possano assoldare assassini per compiere omicidi efferati, al di là che si sia trattato di un errore o meno. Non so perché donne, uomini, bambini, bambine siano schiavizzati, seviziati, torturati oggi, dove tanto cresciamo nel progresso scientifico e tecnologico, ma siamo così indifferenti e eticamente in un vuoto cosmico che ci divora e ci porterà ad autodistruggerci… So che la mia mente viaggia, collega i pezzi sparsi di un puzzle, confusamente, prova a pregare, prendendo forza proprio dalla testimonianza di Emelda, capace di “perdonare”, in modo spiazzante e potente. Mi sembra quasi ingiusto il suo perdono. So solo che il 30 gennaio ero ad Alatri e ho nel cuore il peso di tante giovani vite spezzate, di tante ingiustizie viste con i miei occhi in 25 anni di servizio e che questo Mondo non è il Mondo in cui vorrei vivere, non è umano e che qualcosa deve cambiare. Non so da dove possiamo partire. Forse come spesso troviamo nelle frasi e citazioni ad effetto, l’unica vera via è partire dal cambiare noi stessi.
Di Don Davide Banzato