Milano, 2 ott. (askanews) – Le città possono essere proficui laboratori per lo sviluppo di politiche alimentari sostenibili, che garantiscano a tutti il diritto di accesso al cibo sano e nutriente. A patto che anche i governi nazionali armonizzino queste pratiche virtuose in politiche di più ampia portata, così da consentire il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. Proprio i centri urbani sono i protagonisti del dibattito “Cibo e città: come accelerare un futuro sostenibile” promosso dalla Fondazione Barilla in occasione del Festival dello sviluppo sostenibile di ASviS. Le ragioni della loro centralità sono innanzitutto nei numeri, a partire dal fatto che oggi oltre la metà della popolazione mondiale vive in contesti urbani.
“La maggior parte del cibo prodotto a livello globale è destinato alle città e la produzione e il consumo rappresenta circa il 13% delle emissioni di gas serra – ha detto Marta Antonelli, dottore di ricerca della Fondazione Barilla – Questi sono trend che sono destinati a crescere perchè entro il 2050 due persone su 3 vivranno in insediamenti urbani e la proiezione è che al 2050 circa l’80% del cibo prodotto sarà consumato in città”.
Fin qui numeri e proiezioni. Ma esistono anche evidenze empiriche emerse negli ultimi anni che invitano a focalizzare l’attenzione sulle città. Come ci conferma Roberta Sonnino, docente all’Università di Cardiff: “Le grandi innovazioni di governance alimentare degli ultimi 10 anni arrivano dai contesti urbani dove ovviamente i grandi problemi sono visibili, c’è un senso di urgenza una motivazione ad agire che spesso non si ritrova a livelli più alti di governance”.
Quello che le food policy urbane implementate in questi anni mettono in evidenza è un approccio integrato da parte dei governi locali, la capacità di mettere in connessione il sistema alimentare con sistemi più complessi perchè la fame non è mai un problema isolato, come ci ricorda la professoressa Sonnino che lamenta un grande assente in questo percorso verso la sostenibilità: “Quello che è stato estremamente deludente – ha detto – è stata l’assenza totale dei governi nazionali, la completa atrofia, inerzia politica del contesto nazionale che ovviamente crea un gap di governance enorme perchè non è un solo livello di governance che oggi può aiutarci a implementare l’Agenda 2030 o gli obiettivi di sviluppo sostenibile”.
Nel vuoto lasciato dai governi centrali, le città che si sono dotate di politiche di sostenibilità alimentare mostrano una maggior resilienza nelle crisi, anche quelle più difficili difficili come quella socio-sanitaria innescata dalla pandemia. In tutti gli altri, il Covid 19 ha sollevato il velo sulle tante debolezze dei sistemi alimentari urbani: “Essere totalmente dipendenti delle importazioni, o totalmente dipendenti dal lavoro degli immigrati nei campi sottopagati e sfruttati e ritrovarsi in una situazione in cui non volano gli aerei per cui non arrivano ne’ gli immigrati nei campi ne’ tantomeno il cibo dall’esterno ha esposto la fragilità immensa di alcuni sistemi alimentari dove si era completamente perso ogni senso di controllo locale”.
Di qui il bisogno di una rilocalizzazione del sistema alimentare, di una riscoperta dell’agricoltura urbana e periurbana che di per sè può non essere sufficiente a soddisfare i fabbisogni della popolazione urbana ma che rappresenta un inizio, la necessità di implementare azioni di lotta allo spreco alimentare, di un sistema di mense scolastiche o caritatevoli sane e sostenibili. Perchè il primo insegnamento da trarre dalla pandemia è proprio questo: “Smettere di cercare di intervenire sui sintomi perchè la soluzione del problema non è il banco alimentare, il banco alimentare fa fronte all’emergenza, lavora sul sintomo non sulle cause, serve un intervento concertato sulla produzione ma allo stesso tempo sull’educazione, sul consumo”.
E l’Italia, da grande produttore agricolo europeo che esporta più di 43 miliardi di prodotti alimentari, in tutto questo come è messa? “E’ necessario promuovere un approccio all’agricoltura più sostenibile, che sia non solo di conservazione ma anche di rigenerazione delle risorse dalle quali dipendiamo – spiega Antonelli – L’italia vede quindi la necessità di adattare il proprio settore agricolo con approcci di tradizione e innovazione. Oggi solo il 5% dei ragazzi al di sotto dei 35 anni è impiegato in agricoltura e l’età media dell’agricoltore è di 57 anni”.
A questo occorre aggiungere i livelli di spreco alimentare, 65 chili pro capite ogni anno, e il crescente problema di una popolazione sovrappeso o obesa, anche tra bambini e adolescenti. Ma questi problemi non devono farci perdere di vista alcuni punti di forza, che visti da un Paese come la Gran Bretagna, da cui ci parla la professoressa Sonnino, appaiono ancora più fondamentali: “Io in Italia vedo la grande speranza della fortuna di un clima che è favorevole all’agricoltura, con una varietà di produzione che altri paesi possono solo sognarsi, vedo una dieta mediterranea che ha abbracciato tutte le classi sociali – osserva Sonnino – Non vedo in Italia quell’enorme sperequazione che c’è in Usa o Uk tra la dieta sostenibile appannaggio di pochissimi e il fast food appannaggio della moltitudine. L’Italia ha una infrastruttura culturale e fisica che si deve difendere con le unghie e con i denti”.
E’ chiaro dunque che dalla gestione urbana del cibo, dalla produzione allo smaltimento dei rifiuti, dipende la possibilità di centrare molti degli obiettivi di sostenibilità fissati dall’Onu. Proprio per questo il position paper Cibo, città, sostenibilità, del gruppo di lavoro sul Goal 2 di Asvis lancia 10 raccomandazioni rivolte ai policy maker che vanno dalla pianificazione strategica alla costruzione di una cultura del cibo sano, dalla promozione dell’innovazione alla tutela delle fasce più deboli. Per garantire a tutti il diritto a un cibo sano e sostenibile.