Roma, 8 dic. (askanews) – Chi non ha sentito parlare del monte Ararat, la montagna dell’Arca di Noè, simbolo universale di biblica potenza. Il lago di Van, invece, in pochi sanno che esiste, anche se chi l’ha visto non scorda i suoi paradisiaci paesaggi montani. E nessuno, se non armeno, conosce Avarayr, località che ricorda una battaglia (persa) diventata un pezzo di identità nazionale. Sono i luoghi raccontati da Aldo Ferrari ne “L’Armenia perduta, viaggio nella memoria di un popolo”, libro di Salerno Editrice che propone la scoperta di una cultura millenaria, quella armena, attraverso cinque luoghi che oggi sono in Turchia orientale. « Luoghi in cui degli armeni non c’è traccia: tutti espulsi o uccisi tra il 1915 e il 1923 », dove la toponomastica è stata cambiata per far dimenticare il genocidio operato dall’impero Ottomano e che la Turchia di oggi non accetta come tale, “tragica ossessione di un grande Paese”, ha riassunto Antonia Arslan durante la presentazione alla fiera “Più libri più liberi”, a Roma.
Arslan è diventata celebre con “La Masseria delle Allodole”, caso letterario che nel 2004 ha fatto scoprire al grande pubblico italiano il genocidio armeno, traducendo in narrazione i ricordi di suo nonno. Perché “la maggior parte dei sopravvissuti non ha parlato di quei fatti per una generazione, ma ne ha poi parlato ai nipoti, come nel caso di Antonia », ha spiegato Franca Giansoldati, moderatrice dell’incontro alla Nuvola di Fuksas, autrice di un libro sul genocidio armeno, “La marcia senza ritorno” e convinta sostenitrice del “dovere della memoria”.
“Io non parlo del genocidio”, ha sottolineato Ferrari, che insegna lingua e letteratura armena e storia della cultura russa e del Caucaso a Ca’ Foscari, “parlo di una cultura millenaria che inizia nel sesto secolo avanti Cristo, che per millenni ha prodotto cultura, arte, vita e che oggi per tre quarti non troviamo più nell’attuale Armenia”. Monasteri e campanili in rovina, edifici sgretolati, ricostruzioni storiche senza un accenno agli armeni. Sono i “luoghi dell’assenza” che Ferrari racconta da studioso, con dovizia di particolari, fonti, ma – precisa Arslan – sfociando a tratti in “toni di elegiaca riflessione”. L’autore descrive il suo libro come “una sorta di lamento, non interno – io non sono armeno – ma universale” per una cultura millenaria cancellata nel giro di un secolo. E propone di andare a vedere quei posti, andarli a cercare, “per interrompere almeno in parte il progressivo degrado, per salvarli”.