Beylagan (Azerbaigian), 27 gen. (askanews) – Più ci si avvicina alla ‘linea di contatto’ lungo il confine del Nagorno Karabakh, più da parte azera si sente ripetere che “la pazienza sta finendo, la gente qui ne ha fin sopra i capelli, vuole tornare nelle sue terre. E se dovesse servire una nuova guerra, siamo pronti”. Lo dice Eyvaz Huseynov, il capo dell’organo esecutivo del distretto di Khojavend, occupato dalle forze dell’Armenia con la guerra del 1992-94 e ricostruito ‘in esilio’ sul territorio dell’adiacente distretto di Beylagan. E lo ribadisce il capo dell’organo esecutivo del distretto Giabrayil, Khamal Hassanov, che percorrendo 500 metri di strada lungo un fazzoletto di terra “liberata” nel 2016 accompagna sulla linea di contatto, per la prima volta, giornalisti di alcune testate italiane, tra cui askanews. La diplomazia al lavoro a Baku. Un conflitto, quello del Nagorno Karabakh, ereditato dalla fine dell’URSS e ‘congelato’ dalla Comunità internazionale che teme il peggio nella polveriera caucasica. Ma dopo un quarto di secolo molte cose sono cambiate in quest’area, l’Azerbaigain è diventato Paese di peso non solo nella regione. E gli azeri del Nagorno-Karabakh, stanchi, sempre più scettici, lontani dalla diplomazia al lavoro a Baku, chiedono anche per loro “la svolta”: il ritorno.
“Dopo 25 anni vogliamo una soluzione, non siamo per la guerra, ma le trattative pacifiche non possono durare per sempre, ci deve essere un risultato – afferma Hassanov – la pazienza ha un limite e a noi ne resta poca. Oggi l’Azerbaigian è molto più forte dell’Armenia dal punto di vista economico e militare e potremmo riprenderci il territorio con le armi. Pazienteremo ancora un po, ma è un argomento usurato, vediamo che l’Armenia non vuole una soluzione e la gente non si fida più della Comunità internazionale: siete italiani, giusto? Noi vogliamo che l’Italia, come gli altri Paesi, riconosca chi è l’occupante e ne chieda il ritiro”.
La casa di Hassanov è a 30 km dal piccolo villaggio in cui lo incontriamo, vicinissimo al confine con l’Iran, ripreso durante la guerra dei 4 giorni nel 2016 . Una strada principale, un asilo, la posta, un centro medico. Nelle case ricostruite da zero dovrebbero vivere 428 famiglie, “ma per ragioni di sicurezza ne abbiamo portate solo 150, la linea di contatto è troppo vicina”. È davvero vicina, è lì una piccola caserma ospita qualche decina di militari azeri, in gran parte di leva, giovanissimi. Dalle feritoie della torretta di avvistamento si vedono i campi abbandonati che già sono Nagorno Karabakh occupato. Nessun segno di vita, ma “attenti, ci possono essere dei cecchini, non si può restare a lungo”.
Questa postazione fortificata è l’unica che gli azerbaigiani sono riusciti a installare direttamente – nel 2016 – in uno dei sette distretti occupati dall’Armenia assieme al Nagorno Karabakh. Nel 1991 i separatisti armeni hanno dichiarato la secessione da Baku e per i quali Erevan chiede l’indipendenza (pur non riconoscendo quella annunciata nel 1991). In epoca sovietica era una provincia autonoma all’interno dell’Azerbaigian, il conflitto scoppiato nel 1992 è costato la vita ad almeno 30.000 persone, 1 milione di azerbaigiani sono stati costretti alla fuga e da allora le due parti si lanciano mutue accuse, nella sostanziale indifferenza internazionale, scossa solo dalla breve e sanguinosa guerra di due anni fa.
I profughi interni azeri cacciati dalle loro case non hanno dubbi: “gli armeni assieme ai sovietici hanno compiuto un genocidio, hanno perseguito una politica di pulizia etnica, che cominciò nel 1992 nel villaggio di Khojaly, forse ne avete sentito parlare: 1 civile azerbaigiano su 10 venne ucciso, 613 persone trucidate in un giorno, compresi donne e bambini”, si accalora Huseynov, convinto che per sciogliere il nodo del conflitto armeno-azero dovrebbe essere usato il “modello Tirolo”. “L’Italia ha una posizione attiva nel negoziato per il Nagorno Karabakh, da voi, per il Tirolo è stata trovata una soluzione che ha messo d’accordo le due comunità, perché non possiamo qui da noi? E invece chiedono uno Stato, per chi? Per i 50mila armeni che vi abitano oggi? Sono andati via tutti anche loro, e invece noi vogliamo tornare nelle nostre case”.
A Beylagan, dove vive oggi Huseynov, ci sono 11mila profughi interni, su una popolazione locale anteguerra di 86mila persone. La metà del milione di profughi prodotti dell’occupazione del 20% del territorio azero (Nagorno Karabakh e 7 distretti tutto attorno) sono stati sistemati nei campi distribuiti in tutto l’Azerbaigian. Nei primi anni dopo la guerra venivano finanziati soprattutto da organizzazioni internazionali, mente ora lo Stato azero fa la sua buona parte. A Beylagan, ad esempio, c’è ne sono cinque: tre costruiti con fondi internazionali, due con programmi statali.
Di recente i negoziati internazionali hanno ripreso ritmo e c’è stata una serie di incontri ad alto livello, compresi colloqui informali tra il presidente azero Ilham Aliyev e il nuovo premier armeno Nikol Pashinyan, che fanno sperare. I ministri degli Esteri dei due Paesi si sono visti anche a Milano a dicembre al vertice Osce e per la prima volta è stata adottata una dichiarazione congiunta dopo il recente cambiamento del governo in Armenia. Ed “è ora che si incontrino anche le due comunità del Nagorno Karabakh, azerbaigiani e armeni, noi siamo pronti a farlo, dove la parte armena vorrà, magari in Italia, perché no”, propone Tural Ganjaliyev, capo della Comunità azerbaigiana del Nagorno Karabakh, incontrato a Baku.
Ma qui, a ridosso delle terre occupate, di trattative ne sanno poco e poco ci credono. Lo conferma Sevil Azizova, 72 anni, un figlio “martire” e ne ha perso anche un secondo. Vive da 11 anni in una casetta assegnatale come profugo interno dalle autorità azere, assieme alla famiglia di un terzo figlio. È del villaggio di Karadaje, “lì ci sono stati 33 morti, li hanno buttati in un pozzo e ora gli armeni ci dicono che possiamo riavere i resti. Ma noi non vogliamo i resti, vogliamo tornare e onorare lì i nostri morti”, afferma la donna. “Mi resta un solo figlio, Ataman, oggi ha 39 anni. Noi non vogliamo una nuova guerra, ma se ci sarà, lui è pronto”.