Roma, 20 lug. (askanews) – La ritrovata pace tra Eritrea ed Etiopia ha riaperto lo spazio aereo ai voli dell’Ethiopian Airlines tra Addis Abeba e Asmara dopo 20 anni e consentirà presto di aprire la frontiera, fino ad oggi militarizzata a seguito del conflitto 1998-2000, a linee di autobus tra le città dei due Paesi del Corno d’Africa. “Possono riprendere circuiti di mobilità locale tradizionale che c’erano prima di questa grande frattura, ma possono anche crearsene di nuovi, ma certamente i flussi di eritrei in uscita dal Paese non si fermeranno con la pace”, ha detto ad askanews Valentina Fusari, docente di Popolazione, Sviluppo e Migrazioni all’Università di Pavia e profonda conoscitrice della realtà eritrea per aver insegnato, dal 2012 al 2014, al College di Arti e Scienze Sociali di Adi Keih, dell’Università di Asmara.
Negli ultimi giorni sono infatti arrivate notizie sulla smobilitazione delle truppe al confine e di lavori in corso per ripristinare i collegamenti stradali, in particolare quelli che collegano l’Etiopia ai porti eritrei, a seguito della Dichiarazione di pace e di amicizia firmata ad Asmara il 9 luglio scorso dal premier etiopico Abyi Ahmed e dal presidente eritreo Isaias Afewerki. L’Etiopia, paese con circa 100 milioni di abitanti senza sbocchi sul mare, potrà infatti tornare a usare i porti dell’ex provincia diventata indipendente nel 1991, senza dipendere più solo da Gibuti. “La pace può portare maggiore stabilità e quindi a un rinvigorimento dei movimenti di merci e persone, laddove prima passavano solo gli eserciti – ha sottolineato – possono così riprendere circuiti di mobilità locale tradizionale che c’erano prima di questa grande frattura, ma anche di nuovi, magari favoriti dal boom avuto negli ultimi anni dal settore minerario, con lo spostamento di lavoratori verso i giacimenti. Con la possibilità di dare vita a nuovi agglomerati urbani, più o meno grandi, in aree del Paese che finora erano meno sfruttate, meno vissute”.
Dall’Eritrea sono “altissimi i flussi migratori diretti verso l’Europa”, anche se “si guarda con attenzione ai numeri della popolazione di partenza e dei dati sui flussi c’è qualcosa che non torna perché i ritmi di spopolamento rischiano di apparire irreali”. L’Eritrea conta infatti circa 3,2 milioni di abitanti, stando alla stima delle Nazioni Unite, che negli scorsi anni aveva riferito di circa 5.000 eritrei in fuga ogni mese dal Paese. Dopo il numero record registrato nel 2015, con circa 36.000 eritrei sbarcati sulle coste italiane, dall’inizio del 2018 il Viminale ha registrato l’arrivo di 2.565 eritrei. Più volte le autorità di Asmara hanno contestato tali dati, sostenendo che i migranti che arrivano in Europa sarebbero in realtà etiopici, sudanesi e di altre nazionalità africane che vogliono beneficiare del riconoscimento automatico dell’asilo politico garantito agli eritrei dai Paesi europei. A prescindere dai numeri, ha detto Fusari, “il governo non ha mai negato che ci fossero dei migranti, negava che fossero migranti politici, piuttosto migranti economici dovuti alla condizione socio-economica del paese”. Soprattutto per l’inadeguatezza degli stipendi garantiti ai giovani impiegati prima nel “servizio nazionale”, che prevede sei mesi di formazione militare e 12 mesi di servizio civile, quindi dalla Warsay Yekeallo Development Campaign, introdotta nel 2004 che di fatto prevede la continuazione del servizio nazionale, ma a tempo indeterminato, in progetti volti alla ricostruzione socio-economica del paese. “In Italia noi parliamo di coscrizione obbligatoria, con l’idea di un paese molto militarizzato, e invece non è così – ha tenuto a rimarcare la studiosa – parliamo di persone che fanno il servizio civile. Il problema di questo servizio civile è che non garantiva una paga tale da sopravvivere e sostenere la propria famiglia, nè di scegliere l’ambito di impiego”.
Il governo eritreo ha sempre motivato la durata a tempo indeterminato del servizio nazionale con lo stato di “né guerra né pace” seguito alla guerra del 1998-2000 con l’Etiopia, per il timore di nuove aggressioni. Oggi, con la ritrovata pace, “se verranno smobilitati gli eritrei, se verranno rilasciati i prigionieri, il Paese si troverà ad avere grande manodopera” e “se il mercato locale non riuscirà ad assorbirla, il rischio potrebbe essere un nuovo flusso in uscita, a maggior ragione se le frontiere sono aperte e il visto in Etiopia si può richiedere all’arrivo. Non c’è più solo l’opzione dei campi profughi”, ha aggiunto. Stando ai dati Onu del 2017, sono circa 164.700 gli eritrei presenti nei campi dell’Etiopia, che conta complessivamente 893.000 profughi e richiedenti asilo.
Se quindi la ritrovata pace “porterà reali benefici alla popolazione eritrea, senza però che servizi e istituzioni si adeguino, se la popolazione avrà più soldi a disposizione, più capitale sociale e culturale che non riesce a spendere e a migliorare nel proprio Paese, allora cercherà di farlo altrove”, ha proseguito Fusari. “Quindi i giovani che sono oggi in Eritrea potrebbero chiedere di andare all’Università altrove, di fare il Master da un’altra parte, trovare un lavoro altrove, a fronte delle migliori condizioni di vita della propria famiglia, e allora a cambiare non saranno i flussi in uscita, ma la loro percezione”. Perché “gli eritrei saranno infatti considerati migranti economici e potranno perdere la possibilità di chiedere asilo”. L’analista tiene a sottolineare che questo “non cambia nulla per chi è già fuori dal paese e ha già ottenuto l’asilo o una protezione internazionale, perché queste persone potranno decidere volontariamente se tornare o meno nel Paese”. “Diversa è la situazione per quanti sono in attesa dell’esito alla propria richiesta di asilo, che in media arriva dopo un anno, un anno e mezzo: se il governo di Asmara ripristina il limite temporale di 18 mesi al servizio nazionale, revoca la Warsay Yekeallo Development Campaign (WYDC), se libera i prigionieri e dimostra che non c’è rischio di persecuzione per i singoli e per le loro famiglie, viene meno la causa fondante per richiedere asilo. Ma questo dipenderà da cosa farà l’agenzia Onu per i richiedenti asilo (Unhcr), se adeguerà le condizioni per il riconoscimento della protezione”.
Altro discorso per “quanti sono invece in viaggio, non per raggiungere per forza l’Europa, che potrebbero essere considerati irregolari, per cui è alto il rischio di un rimpatrio forzato” ma “ci saranno comunque possibilità in termini di protezione umanitaria perché queste persone hanno fatto un viaggio che le ha esposte e rese vulnerabili a soprusi e violenze, soprattutto in Libia”, ha concluso.