Roma, 15 feb. (askanews) – Sette anni dopo lo scoppio della rivolta del 2011che si concluse con la fine di 42 anni di dittatura imposta dal regime del colonnello Muammar Gheddafi, i libici sono ancora in attesa di vedere la fine di una persistente transizione e la nascita di uno stato democratico.
Per celebrare l’anniversario della rivoluzione del 17 febbraio 2011, le autorità hanno scelto il Palazzo dei Martiri dove Gheddafi amava tenere i suoi discorsi, nel cuore della capitale Tripoli. Ma per tanti libici non c’è molto da festeggiare in un Paese ricco di petrolio dove mancano però ancora i servizi di base, mentre violenze e divisioni continuano a regnare, alimentando incertezza e disperazione, specialmente tra i giovani.
“Aspetto la liberazione da sette anni”, afferma Hamdi al-Bechir, un ragazzo di appena 17 anni che aggiunge “non voglio aspettare 42 anni come ha fatto mio padre con Muammar” Gheddafi. “Non aspetterò che rubino la mia giovinezza e la mia vita, mi getterò in mare con i migranti, senza tornare indietro”, conclude Hamdi, davanti al negozio di abbigliamento dove lavora.
La caduta di Gheddafi nel 2011 ha portato alla disgregazione dell’apparato di sicurezza e la Libia di oggi è lacerata da lotte di potere condotte in totale impunità da tante milizie, ma anche da decine di tribù, componente essenziale della società libica. Sfruttando l’anarchia, il gruppo dello Stato Islamico (Isis) ha messo radici nel Paese, occupando per diversi mesi la città natale di Gheddafi, Sirte, prima di essere espulso nel dicembre 2016. Pur indeboliti, gli uomini del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, sono ancora in agguato nel deserto e rappresentano una minaccia persistente.
Nel frattempo, il Paese nordafricano è diventato anche un centro di immigrazione clandestina, dove centinaia di migliaia di migranti provenienti dall’Africa subsahariana che tentano attraversare il Mediterraneo verso l’Europa vengono sistematicamente sfruttati e torturati.
A livello politico, due autorità stanno lottando per il potere e nessuno è riuscito a riportare un reale ordine nei pezzetti di territorio che pretende di controllare. Il governo d’Accordo nazionale (GNA), emerso da un’intesa sponsorizzata dall’ONU alla fine del 2015, ha sede a Tripoli. Mentre un’autorità rivale si è trasferita nella parte orientale del paese, in gran parte controllata da un esercito che fa capo al controverso generale Khalifa Haftar.
Intanto, la violenza e la conseguente mancanza di sicurezza sono diventate il principale problema per i libici nella loro vita quotidiana. A questo vanno aggiunte la continue interruzioni della corrente elettrica e le lunghe code di fronte alle banche in cui la liquidità è spesso carente. Mentre la principale risorsa del Paese, l’industria petrolifera, pesantemente colpita dalla violenza, lotta per recuperare i livelli di produzione raggiunti sotto Gheddafi, ovvero 1,6 milioni di barili al giorno.
Per Federica Saini Fasanotti della Brookings Institution di Washington “i processi di democratizzazione sono – come la storia ci dice – sempre lunghi, crudeli e molto difficili. “Creare una nazione può essere questione di decenni, persino di secoli, in alcuni casi”, ha detto alla France Presse. Ogni tentativo di ristabilire l’ordine si scontra puntualmente con l’ostilità di una moltitudine di gruppi armati le cui alleanze cambiano in base all’interesse del giorno. E così, gruppi armati hanno impedito all’inizio di febbraio a migliaia di abitanti di Taouarga (Ovest), cacciati dalle loro case nel 2011 per aver sostenuto il deposto regime. Questo, nonostante un accordo mediato dal GNA e dall’ONU.
Per l’inviato dell’Onu, Ghassan Salamé, riportare l’ordine in Libia “richiede prima di tutto la fondazione di uno Stato legittimo riconosciuto da tutti”. Per raggiungere questo obiettivo, Salamé ha programmato elezioni presidenziali e legislative nel 2018. Ma la strada è ancora lunga, ha ammesso lo stesso inviato Onu di recente. Diversi esperti, tuttavia, sono scettici sul successo di queste elezioni, anzi c’è chi ritiene che possano complicare ulteriormente la situazione.
Presentato dai suoi sostenitori come salvatore della patria e accusato dai suoi detrattori di voler ripristinare una dittatura, Haftar cerca di proporsi come unica alternativa e tenta comunque di estendere con la forza il suo controllo sul’esteso Paese. Bestia nera degli islamisti, l’uomo forte della Cirenaica sostenuto da Egitto e Emirati Arabi, pressato dalla Comunità internazionale alla fine ha annunciato di non opporsi allo svolgimento delle elezioni senza precisare se la sua parte ne prenderà parte. (Con fonte afp)