Istanbul, 19 gen. (askanews) – A undici anni dall’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink il caso resta ancora irrisolto, mentre la lotta di Ankara contro il movimento di Gulen rischia di influire sul corso del processo occultando ancora una volta i reali responsabili del delitto.
Dink, aveva toccato la questione del genocidio armeno, da sempre argomento tabù in Turchia, ed è stato uno dei principali sostenitori del dialogo e della riconciliazione tra la comunità turca e quella armena. A questo scopo aveva orientato tutta la sua attività professionale, in particolare come direttore del settimanale bilingue Agos. Le sue posizioni avevano suscitato l’ira dei circoli ultra-nazionalisti del Paese anatolico, sfociata alla fine nell’assassinio del giornalista.
Ogun Samast, esecutore del delitto per conto di un gruppo ultra-nazionalista di Trabzon, fu arrestato alcuni giorni dopo aver commesso l’omicidio, processato e condannato all’ergastolo, seppur ancora minorenne al momento del delitto. Tuttavia, già nel 2007 durante le prime udienze del processo, erano emersi report dell’intelligence che affermavano come la polizia e la gendarmeria fossero al corrente dell’omicidio che si sarebbe compiuto.
Lo stesso Samast ha dichiarato che il giorno del crimine non era solo, identificando in seguito alcuni ufficiali della gendarmeria che erano presenti sul luogo del delitto. Altre testimonianze hanno inoltre ribadito che la gendarmeria era stata precedentemente informata del piano di uccidere il giornalista.
Il processo per l’omicidio di Dink rappresenta uno dei procedimenti politici chiave della storia turca recente. Il caso, che vede attualmente imputate 85 persone tra cui diversi membri delle forze dell’ordine e della gendarmeria, è stato inserito inizialmente nell’inchiesta Ergenekon, iniziata alcuni anni fa come un meccanismo di lotta contro la gladio turca, ma divenuto presto un meccanismo per silenziare l’opposizione secolarista del Paese.
Con la rottura definitiva avvenuta nel 2014 tra il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e il movimento di Gulen – ex alleato dell’attuale governo di Ankara, ora accusato di aver organizzato il tentato golpe dell’estate 2016 – il caso Ergenekon, condotto in buona parte da procuratori considerati vicini al movimento gulenista, è stato chiuso. Mentre l’omicidio Dink è considerato ora tra i crimini compiuti da membri dello stesso movimento.
“Il caso di Hrant Dink non può più essere trattato come un elemento di cause e di attriti politici”, afferma il giornalista di Hurriyet Ismail Saymaz, che da anni segue il caso del giornalista turco-armeno. “Io penso che in tutti questi anni i responsabili dell’accaduto avrebbero già dovuto essere processati per le proprie colpe. Ma siccome in passato i gulenisti erano potenti questo non è accaduto. Oggi invece, il processo ha cambiato corso perché i gulenisti hanno perso potere”.
Nel terzo testo d’accusa presentato dal procuratore Gokalp Kokcu lo scorso aprile, il caso è stato infatti collegato al movimento di Fethullah Gulen, che a sua volta si trova tra i principali imputati del delitto. Tra gli altri accusati si trovano i procuratori responsabili del caso Ergenekon, l’ex direttore del quotidiano Zaman Ekrem Dumanli, l’ex capo della polizia di Istanbul Celalettin Cerrah, Resat Altay e Ali Oz – rispettivamente capi della polizia di Trabzon e di Istanbul – e diversi ufficiali dell’intelligence della gendarmeria di Istanbul. Secondo il procuratore Kokcu, l’omicidio di Dink, rappresenterebbe il primo colpo inflitto da Gulen allo Stato turco.
“Osservando l’intera indagine pensiamo che tutti gli organismi dello Stato sono da tenersi responsabili dell’omicidio, inclusa la rete Ergenekon. Si è trattato di un atto collettivo. E vediamo che erano coinvolti anche alcuni ufficiali di polizia gulenisti, amministratori e ufficiali e tutti i dipartimenti dello Stato”, afferma Yetvart Danzikyan, attuale direttore di Agos.
Secondo l’analista Uygar Gultekin “il passato della Turchia è pieno di questi crimini politici e processi infiniti. I veri responsabili in questi casi non vengono mai trovati per la mancanza di un’indagine comprensiva e diligente”.
Nel 2010 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha già condannato la Turchia per non aver protetto il giornalista pur sapendo che era in pericolo e per non aver condotto un’inchiesta completa ed efficiente contro i responsabili dell’omissione.
Tuttavia i legali della famiglia Dink continuano a lavorare per impedire che l’omicidio di Dink si trasformi in una partita politica, continuando a riportare l’attenzione sul crimine e suoi suoi responsabili.