Roma, 28 set. (askanews) – La sfida ai mercati del governo giallo verde con una energica espansione del deficit, al 2,4 per cento del Pil nel 2019, ha il potenziale di innescare un concatenamento di eventi con due sviluppi molto negativi rispetto alle regole della Bce, uno sulle banche e l’altro sui titoli di Stato dell’Italia. E potrebbero essere proprio questi due pericoli a contribuire alle forti vendite degli investitori su Btp e titoli bancari che si stanno registrando in queste ore.
Il problema di fondo è sui rating che le maggiori agenzie internazionali assegnano al Belpaese. Tutte e tre attualmente attribuiscono una valutazione di affidabilità creditizia (BBB con S&P, Baa2 con Moody’s e BBB con Fitch) appena due gradini sopra lo spartiacque al di sotto del quale si finisce al livello comunemente chiamato “junk”, spazzatura, inferiore all’investment grade.
Le agenzie hanno messo sotto osservazione l’Italia per possibili declassamenti (outlook negativo), ma ad oggi prima di assumere decisioni hanno scelto di attendere le cifre concrete che verranno inserite nella bozza di bilancio.
Se i titoli di stato italiani finissero fuori dall’investment grade, con un doppio declassamento, o se le agenzie mostrassero un orientamento in tal senso, con un declassamento singolo combinato a un nuovo outlook negativo, in base alle regole della Bce una prima ricaduta immediata investirebbe le banche. Non potrebbero più utilizzare le emissioni pubbliche tricolori (se a un rating junk) come garanzie (collateral) per aggiudicarsi i rifinanziamenti della stessa Bce. In pratica, avrebbero una parte rilevante del loro bilancio esposta su un segmento del tutto inutile per aggiudicarsi i rifinanziamenti cruciali per effettuare poi erogazione di prestiti e operazioni nell’economia.
Le banche italiane potrebbero ancora ottenere rifinaziamenti della Bce, ma fornendo come garanzie altri titoli con rating adeguati. Ovviamente il crollo di valore delle emissioni italiane crea poi subito un effetto meccanico di perdita di valore della banca che li possiede.
La seconda grande ricaduta negativa riguarderebbe gli stessi titoli pubblici italiani, a causa del piano di acquisti della Bce (il quantitative easing). L’istituzione attualmente è orientata ad interrompere gli acquisti netti dopo il mese di dicembre. Questo canale si chiuderà subito per l’Italia se perdesse i requisiti di rating di acquistabilità (almeno un investment grade).
Ma soprattutto a rischio c’è la parte di “trascinamento per inerzia” del Qe: la Bce ha ad oggi rilevato titoli di Stato per 2.115 miliardi, di cui 356 miliardi di titoli pubblici italiani. Questi bond giungeranno progressivamente a scadenze e l’impegno dell’istituzione, per mantenere condizioni di politica monetaria espansiva, è di rinnovare questi bond (e solo questi) a scadenza, per un periodo che al momento resta indeterminato. Se i titoli italiani perdessero i rating minimi di ammissibilità sugli acquisti della Bce, questa non potrebbe procedere agli acquisti a scadenza.
In questo modo, oltre alle vendite degli operatori privati (ad esempio i fondi pensione o i fondi obbligazionari vincolati a determinati rating) sui mercati si scaricherebbero anche le vendite (non riassorbite) della Bce, con un potenziale effetto-spirale che potrebbe far salire ulteriormente tassi e spread e costi di rifianziamento del debito pubblico.
L’unica scappatoia sarebbe cercare di ottenere una deroga, un “waiver” che tuttavia, sempre in base alle regole della Bce, implica non pochi requisiti. Il più importante è quello di aver chiesto e ottenuto un piano di sopporto da parte del fondo salva Stati europeo, l’Esm, che comporterebbe la negoziazione di un programma di correzione assieme al fondo stesso e alla Commissione europea. Con quello la Bce potrebbe anche attivare il suo scudo antispread (l’Omt). Ma questo implicherebbe rivolgersi alle istituzioni Ue con ben altro atteggiamento rispetto a quello attuale. Significherebbe invitare la Troika.