Milano, 23 set. (askanews) – Una chiesa simbolica, un organo e una canzone pop, “Il cielo in una stanza”, ripetuta come un mantra. Non è facile spiegare che cosa succede davvero dentro San Carlo al Lazzaretto a Milano quando si scopre il monumento sonoro temporaneo che l’artista islandese Ragnar Kjartansson ha pensato e realizzato con la Fondazione Nicola Trussardi. Quello che è certo che l’opera “The Sky in a Room” muove emozioni impreviste, e spalanca una serie di possibilità che, forse, non avremmo neppure osato sperare.
“Quest’opera – ci ha detto il curatore Massimiliano Gioni in collegamento da New York – ha questo potere straordinario di trasformare l’intimità in una vastità. Ragnar è un artista che gioca e si ricollega direttamente alla tradizione romantica sia dell’Islanda, sia della pittura e della poesia nordica, quindi questa idea di un anelito per l’infinito è intimamente presente nel suo lavoro”.
Una tensione verso l’infinito che avviene però tramite una manifestazione della cultura popolare e questa è, da sempre, una delle cifre del lavoro di Kjartansson.
“A me – ci ha spiegato l’artista dall’Islanda – piace molto usare diverse forme culturali, come una sorta di ingredienti, per arrivare a un’idea scultorea, a un monumento. E io spesso vivo la mia vita interiore e le mie emozioni attraverso le canzoni pop”.
“Alcune canzoni in particolare – ha aggiunto Ragnar – sono diventate più importanti nella mia vita, come Il cielo in una stanza. Quello che mi interessa è prendere alcuni elementi narrativi del pop e trasformarli in una scultura, come se fosse un’opera del Canova”.
Il fatto di avere scelto la chiesa che stava al centro del Lazzaretto di Milano, dall’epoca della peste del Manzoni, è ovviamente un richiamo ai nostri tempi di pandemia e distanziamento.
“E’ un luogo, come molti di quelli che abbiamo scelto per la Fondazione Nicola Trussardi – ha aggiunto il curatore – che è parte del sistema nevralgico della città, e allo stesso tempo è dimenticato o comunque non noto a tutti. In questa occasione ne apriamo le porte: è un piccolo scrigno, una sorta di carillon, così lo abbiamo anche immaginato, con quest’opera al centro che ci parla di circa 600 anni di storia di Milano”.
E come durante il lockdown le canzoni erano state spesso un veicolo di comunità, così il brano di Gino Paoli nella visione di Kjartansson diventa qualcosa di altro, un dispositivo di empatia e anche di attenzione, che interagisce con lo spazio della chiesa, modificandolo, oltre che con le emozioni del pubblico.
“Io credo veramente – ha proseguito l’artista – che le opere d’arte appartengano agli spettatori. I miei pensieri riguardo a un pezzo sono sempre molto più limitati di quello che uno spettatore riesce poi a trovarci”.
“C’è questa sfida – ha sottolineato Massimiliano Gioni – di ritrovare l’infinito nel banale, nel sentimentale, che è la sfida di Ragnar ed è una sfida alla quale dobbiamo prestarci tutti oggi, ossia essere in grado di riscoprire il romantico nel quotidiano”.
Un quotidiano che è fatto di dubbi, incertezze, paure. Ma anche di opportunità e di conferme che possiamo andare a cercare anche nei modi e nei luoghi più imprevisti, a cominciare da dentro di noi, ovviamente.
“Oggi, in questo lungo, sfibrante, interessante, strano tempo del Covid – ha concluso Ragnar Kjartansson – l’arte non è una via di fuga, ma piuttosto qualcosa che definisce il nostro stare nel mondo e ci ricorda la nostra umanità”.
Ecco, se volevano cercare l’infinito probabilmente lo abbiamo trovato. Era vicino, era nostro, ma per ricordarcene ci serviva un cuore più largo, magari anche un po’ sdolcinato, ma che importa. E’ comunque qualcosa di bellissimo.