Venezia, 2 set. (askanews) – La parola chiave è inquietudine, è chiaro. Ed è una parola preziosa, che sta alla base della ricerca culturale, ma è anche una parola difficile, che espone a rischi e a paure. Da qui si può partire per addentrarsi nella mostra “Le Muse Inquiete” che la Biennale di Venezia ha proposto nel Padiglione Centrale ai Giardini dopo che la pandemia ha reso impossibile organizzare la Biennale di Architettura 2020, rinviata al prossimo anno. Un percorso, nato dai materiali dell’Archivio della Biennale, che ragiona sull’istituzione davanti alla propria storia, a partire dalle pagine più difficili, quando a Venezia sfilavano i gerarchi nazisti. Per questo abbiamo chiesto al presidente della Biennale, Roberto Cicutto, quanto è importante guardare anche ai momenti più bui.
“Quanto è importante soprattuto che questi momenti bui non vengano censurati – ci ha risposto – perché sarebbe troppo facile superare il problema non vedendoli. Il Medioevo ha generato il Rinascimento, il fascismo ha generato il Neorealismo nel cinema dopo la guerra, ha generato l’Italia che viviamo oggi: ancora democratica, libera, dove le arti sono ancora importanti. E credo che questo lockdown abbia dimostrato come non se ne possa fare a meno in maniera molto più chiara”.
Nella mostra, un altro elemento chiave sono gli anni della Contestazione e poi delle diverse forme di dissenso che hanno trovato voce alla Biennale, un luogo che in più momenti ha fatto in un certo senso da cartina di tornasole delle problematiche e delle aspirazioni della società. Curata da tutti i direttori delle sei sezioni dell’istituzione, “Le Muse Inquiete” spazia – senza nascondere i problemi, anche interni, né il provincialismo di molti commenti – dal cinema alla danza, dalla pittura alla musica, dal teatro all’architettura.
In una narrazione, concepita per l’allestimento con i Formafantasma, che ci è stata raccontata anche da Cecilia Alemani, direttore del settore Arti visive. “Con un po’ di attenzione – ha detto ad askanews – abbiamo cercato di creare un percorso che offrisse questi documenti, ma in un modo diverso, in un modo accessibile, ogni tanto prendendosi anche qualche libertà”.
Cruciale, ovviamente il ruolo dell’Archivio storico, rappresentato dalla direttrice Debora Rossi, che ci ha parlato dei cambiamenti che anche questa sezione sta vivendo. “Da luogo l’archivio – ci ha spiegato – deve diventare attività, a partire dalla progettazione delle mostre. L’Archivio della Biennale, che raccoglie la documentazione di tutte le mostre, dall’inizio ai giorni nostri, è un luogo dove i direttori vengono a studiare il passato per progettare il futuro”.
“Sono materiali – le ha fatto eco Cicutto – che non possono essere utilizzati solo ed esclusivamente come didascalie di libri o per documentari, sono materiali che vivono e che devono essere inseriti in una continuità di discorso e dialogo tra le arti”.
Un dialogo che la mostra, nella sua inquietudine di fondo, ricostruisce e riallaccia attraverso i grandi dipinti che chiedevano libertà per il Cile dopo il golpe di Pinochet oppure la storia della prima Biennale di Architettura; attraverso la “ricerca impossibile” di Carmelo Bene oppure gli happening del Living Theatre. Insomma, tanto fermento, spesso polemiche, molte incomprensioni, anche violenza. Ma alla fine da tutto ciò è derivato progresso, ricerca, passi avanti sulla strada della consapevolezza del ruolo degli artisti e sull’importanza della cultura nella società. Oltre che sempre nuove e differenti risposte alla domanda e al bisogno di arti che siano calate nel proprio tempo.