Torino, 3 feb. (askanews) – Pronunciare una parola come “invisibilità” quando ci si riferisce al lavoro di Tino Sehgal, l’artista tedesco classe 1976 che oggi è senza dubbio uno dei più importanti sulla scena internazionale, può sembrare fin troppo facile e scontato. I suoi lavori sono privi di oggetti e non possono essere fotografati, non esistono cataloghi né didascalie, lui stesso è schivo e preferisce la distanza rispetto ai riflettori. Tutto vero. Ma l’invisibilità a cui ci di riferisce dopo avere assistito con stupore, partecipazione e alla fine commozione a oltre due ore di performance di danza, canto e interazione con il pubblico che rappresentano il cuore del primo progetto personale di Sehgal che arriva in Italia, alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, quell’invisibilità è di altro tipo e ha a che fare con l’enorme quantità di possibilità che l’opera spalanca a ciascuno spettatore e che restano, sotto le grandi navate dello spazio espositivo torinese, appunto invisibili.
Sono le trame degli sguardi, che vanno dai ballerini al pubblico e viceversa, linee infuocate che, se disponessimo di un visore a infrarossi, individueremmo in tutto il loro fittissimo mappare il volume del Binario 1 delle OGR. Sono le storie che i performer raccontano individualmente agli spettatori, storie che possiamo solo ascoltare e immaginare, cui possiamo credere o meno, rispondere o tacere, ma che, pur toccandoci profondamente, non lasciano tracce concrete, solo sensazioni e, chissà, la nostalgia di quegli stessi ricordi altrui.
“Le persone corrono, cantano, danzano, si muovono in un certo senso come ‘sciami’ di uccelli – ci ha poi detto Tino Sehgal, dritto davanti a una parete di mattoni neri che ne metteva ancora più in risalto gli occhi mobili e il calore delle risposte -. Sono diversi anni che lavoro su questi movimenti e quando le persone si avvicinano al pubblico raccontano delle loro storie, rispondendo a una domanda semplice: quando hai avuto la sensazione di essere arrivato a qualche risultato, o di avere un senso di appartenenza”.
Storie delle quali, ci assicura Sehgal, lui non sa nulla, così come non devono avere un argomento, solo quella componente di pienezza di cui sopra. E così, nel nostro caso, abbiamo sentito parlare dello sguardo amorevole di una madre sulle spalle della figlia; oppure dei dilemmi di una donna e delle sue pillole del giorno dopo; o ancora di un disegno che diventava amore o dello stesso amore di un nonno per la montagna e per la propria moglie. Una ragazza ha anche cantato per noi, mentre attraversavamo, decisamente rapiti, lo spazio della performance, quasi a voler delle prove dell’essere stati partecipanti attivi, in qualche modo di questo giorno.
“Sono una specie di regista teatrale – ha aggiunto Sehgal quando gli abbiamo chiesto come definisse il proprio ruolo in tutto questo – ma lavoro anche molto con le strutture dei giochi o degli sport: ci sono le regole, per esempio come nel caso del calcio, e alla fine io ho il ruolo dell’allenatore”. Un allenatore, comunque, che ha pianificato in modo molto preciso come strutturare le scene di questo “grande movimento in continua mutazione” nel corso della settimana, attraverso, tra le altre cose, citazioni di altri artisti: c’è, per esempio un bacio da Rodin, ma anche, e qui il cerchio si chiude intorno a una delle possibili definizioni di arte contemporanea, la comparsa, in carne, ossa e voce, di Ann Lee, il personaggio di un manga giapponese che nel 1999 Philippe Parreno e Pierre Huyghe hanno acquistato per liberarla dalla pagina dei fumetti e farla diventare molto altro in diverse opere di diversi loro colleghi. E ora, qui, Ann Lee diventa un essere vivente, come dice lei stessa, “quadridimensionale”. La giovane parla a tutto il pubblico di se stessa e della possibilità di far tornare a fiorire la creatività, anche in un mondo che, direbbe lo scrittore Don DeLillo, appare soffocato dalla tecnologia (forse soprattutto dalla tecnocrazia). Accanto alla cura nella costruzione dell’opera, però, c’è naturalmente anche il suo opposto, ossia l’elemento di imprevedibilità, l’autonomia narrativa lasciata ai performer, la posizione e la reazione del pubblico, oltre che un passaggio al buio che si ricorda precedenti lavori dell’artista e che costituisce un altro dei cuori misteriosi e pulsanti della mostra.
“Io credo – ha detto ancora Tino Sehgal – che quello che faccio sia molto vecchio, è vecchio e nuovo, mi fa piacere se viene definito nuovo, ma io credo che ci sia un grande valore in queste vecchie forme. Non sono mai stato appassionato di tecnologia e non credo che la tecnologia possa essere più potente di qualcuno che ti guarda negli occhi. Certo la tecnologia può darci oggetti magnifici, ma non saranno mai come qualcuno che ti bacia o che canta proprio per te. E anche certe forme di arte più vecchie possono essere usate in modo molto contemporaneo”.
Per esempio abolendo la componente oggettuale, come si diceva, oppure sfruttando le qualità della danza come “super arte”, spostandola all’interno dei musei e di altri luoghi chiave del contemporaneo, come la Biennale di Venezia, dove ha vinto anche il Leone d’oro, o dOCUMENTA di Kassel, il cui memorabile intervento nel 2012 è stato raccontato anche – e in modo magistrale – dallo scrittore Enrique Vila-Matas. Oggi Sehgal arriva alle OGR, con la curatela di Luca Cerizza, in un momento che può essere definito di consapevole maturità. La sua costruzione di “comunità temporanee” ci appare in questo momento più importante e interessante – proprio ai fini della riflessione sui percorsi che il contemporaneo continua a rinnovare – rispetto alla critica al consumo (e anche al sistema dell’arte) che scaturisce ovviamente dalla immaterialità del suo lavoro. E la continua mobilità di tali comunità, il loro essere per definizione provvisorie, le carica di un fascino unico, privo dell’angoscia sociale della durata, aprendo la porta a un’esperienza artistica che può raggiungere vette profondissime. E dimostrare che il provvisorio, alla fine, è ciò che riesce meglio a mappare l’umano, i suoi sguardi, i suoi passi, la sua capacità di ridefinire ogni volta nuove regole. All’interno degli “sciami” umani di cui tutti noi siamo parte, ma nei quali, ci ricorda Tino Sehgal, ognuno può muoversi, seppure ai confini dell’invisibile, con la propria autonomia (proprio libero arbitrio, verrebbe voglia di scrivere) senza compromettere per questo l’armonia del complesso.