Roma, 13 nov. (askanews) – L’export agroalimentare italiano quest’anno supererà i 40 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 6% sul 2016, spinto dalla crescita nelle vendite di vino, salumi e formaggi, che segnano un nuovo record, con aumenti compresi tra il +7% del vino e il +9% dei formaggi. Un risultato rilevante, sottolinea Nomisma Agrifood Monitor, per una filiera altrettanto importante che dall’agricoltura alla ristorazione vale il 9% del PIL italiano (con più di 130 miliardi di euro di valore aggiunto), coinvolge il 13% degli occupati totali e concentra un quarto di tutte le imprese presenti in Italia. Un dato che fa riflettere, anche se bisogna considerare che il 60% dell’export arriva da 4 Regioni, tutte del nord Italia: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. Il Sud, nel complesso, incide sull’export agroalimentare per meno del 20%. L’altro dato interessante, è una ripresa dei consumi alimentari sul mercato nazionale, al momento in crescita dell’1,1%.
Guardando ai mercati di destinazione sono soprattutto i paesi extra-Ue (seppure rappresentino ancora meno del 35% dell’export totale) ad evidenziare i tassi di crescita più elevati. Tra questi Russia e Cina, con variazioni negli acquisti di prodotti agroalimentari italiani a doppia cifra (oltre il 20%), benché il loro “peso” continui ad essere marginale sul totale dell’export (meno del 2%). In linea invece con la media di settore le esportazioni verso Nord America e paesi Ue (dati gennaio-luglio 2017).
“L’aumento dell’export unito ad un consolidamento della ripresa dei consumi alimentari sul mercato nazionale (+1,1% le vendite alimentari nei primi 9 mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016) prefigurano un 2017 all’insegna della crescita economica per le imprese della filiera agroalimentare”, spiega Denis Pantini, responsabile dell’area agroalimentare di Nomisma.
Una filiera che, dalla produzione agricola alla distribuzione al dettaglio e ristorazione vale oltre 130 miliardi di euro di valore aggiunto (pari al 9% del Pil italiano), genera lavoro per oltre 3,2 milioni di occupati (il 13% del totale) e coinvolge 1,3 milioni di imprese (il 25% delle aziende attive iscritte nel Registro Imprese delle Camere di Commercio). Ma la rilevanza strategica della filiera agroalimentare va oltre i valori assoluti e si esprime nella sua capacità di tenuta e salvaguardia socioeconomica anche in tempo di crisi. “Dallo scoppio della recessione globale (2008) ad oggi – continua Pantini – il valore aggiunto della filiera agroalimentare italiana è cresciuto del 16%, contro un calo di oltre l’1% registrato dal settore manifatturiero e un recupero del 2% del totale economia, avvenuto in maniera significativa solamente a partire dal 2015”.
Non male per un settore fortemente frammentato dove le imprese alimentari con più di 50 addetti (quelle medio-grandi) rappresentano appena il 2% del totale, quando in altri paesi competitor – come la Germania – questa incidenza arriva al 10%. E questo spiega anche perché la propensione all’export della nostra industria alimentare sia pari al 23% contro il 33% della Germania, o visto da un’altra angolatura, perché le nostre esportazioni per quanto in crescita siano ancora molto inferiori a quelle francesi (59 miliardi di euro) o tedesche (73 miliardi).
La presenza di imprese più dimensionate unita a reti infrastrutturali più sviluppate nonché a produzioni alimentari maggiormente “market oriented” spiegano anche perché oltre il 60% dell’export italiano faccia riferimento ad appena 4 regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, mentre al contrario tutto il Sud del Paese incida per meno del 20%.
Un differenziale che rischia di allargarsi ulteriormente anche in quest’anno di trend favorevole ai nostri prodotti, dato che nel primo semestre 2017 mentre le regioni del Nord Italia hanno messo a segno una crescita di oltre il 7% nelle vendite oltre frontiera, quelle del Mezzogiorno non sono riuscite a raggiungere il +2%.