Le “parole d’autore” più usate nella lingua italiana secondo Babbel – askanews.it

Le “parole d’autore” più usate nella lingua italiana secondo Babbel

  “Scudetto”, “pandemonio” e “carrambata”:
Mag 29, 2023

Roma, 29 mag. (askanews) – La lingua italiana è considerata da molti una delle più espressive e musicali al mondo, al cui fascino contribuisce l’apertura verso gli influssi provenienti da altre lingue e culture, nonché la ricettività nei confronti di innovazioni linguistiche e neologismi. La sua storia plurisecolare e i numerosi punti di contatto con altri sistemi linguistici, infatti, hanno portato alla formazione di una lingua ricca di prestiti e di termini dall’etimologia complessa, tra cui anche diversi vocaboli curiosi introdotti da personaggi celebri particolarmente creativi nell’uso del linguaggio.

Sono molti i termini e le espressioni idiomatiche, spiega una nota, la cui origine è riconducibile all’estro di poeti, scrittori, giornalisti — ma non solo. Per celebrarne la varietà, gli esperti di Babbel, la piattaforma per l’apprendimento delle lingue che offre lezioni su app e live, hanno identificato ed analizzato alcuni degli esempi più iconici.

Vengono spesso chiamate “parole d’autore”, secondo una definizione elaborata dal linguista Bruno Migliorini negli anni ’70, le parole e i modi di dire coniati da persone note. In particolare, tale etichetta si presta bene a descrivere il lessico generato dai grandi della letteratura: da Dante a D’Annunzio, ecco alcuni dei loro contributi più significativi.

Tra i più celebri e prolifici nella creazione di nuove parole vi è, senz’altro, Dante Alighieri, spesso ricordato come il “padre” della lingua italiana. In particolare, a lui si devono alcuni modi di dire originali, come ad esempio l’espressione “non mi tange”, utilizzata per dichiarare la propria superiorità in relazione alla situazione affrontata: tale frase veniva originariamente pronunciata da Beatrice durante la sua discesa all’Inferno per sottolineare il suo distacco, in quanto creatura divina, dall’ambiente circostante. Altra espressione ormai di uso comune, impiegata soprattutto con un’accezione ironica, è l’incipit “galeotto fu”, seguito dalla menzione di un evento, un oggetto o un individuo che favorisce l’amore tra due persone. Nel canto della Divina Commedia dedicato agli amanti Paolo e Francesca, il verso “galeotto fu’l libro e chi lo scrisse” fa riferimento, in realtà, al nome proprio di uno dei personaggi del Lancillotto — Galeotto — ricordato per aver spinto Ginevra tra le braccia del protagonista. Allo stesso modo, la storia d’amore clandestina che lega i due prende il via proprio con la lettura di un passo dello stesso romanzo. Per antonomasia “galeotto” si può intendere ormai anche come sinonimo di “intermediario d’amore”.

“Termini come “galeotto”, “dongiovanni” o anche il felliniano “paparazzo” vengono chiamati in linguistica deonomastici. Si tratta di nomi comuni derivanti da nomi propri, spesso adoperati nel linguaggio di tutti i giorni senza tener conto del loro significato originario: la lingua italiana ne è piena”, ha commentato Gianluca Pedrotti, Principal Learning Content Editor di Babbel.

Un esempio paradigmatico di “deonomastico”, suggerisce il linguista, è senz’altro il termine “azzeccagarbugli”, utilizzato per definire un avvocato di poco conto o che pensa ai propri interessi. La popolarizzazione di questa espressione, probabilmente un’italianizzazione del milanese “zaccagarbùj”, si deve al noto avvocato, personaggio di dubbia moralità, de “I Promessi Sposi” (anche se attestata già in Machiavelli). Un altro importante contributo manzoniano è poi la frase, pronunciata da uno dei bravi a proposito dell’unione di Renzo e Lucia: “questo matrimonio non s’ha da fare”. Oggi l’espressione “non s’ha da fare” è usata per descrivere una situazione che non si verificherà.

Non tutti sanno che le parole d’uso comune “scudetto” e “tramezzino” si devono all’inventiva del Vate. Secondo la leggenda, il primo termine, che oggi designa il distintivo tricolore applicato sulle maglie della squadra che vince il campionato, dovrebbe la sua fortuna ad un commento di D’Annunzio ad una partita di calcio organizzata durante l’occupazione di Fiume in occasione della quale avrebbe notato il triangolino di stoffa apposto sulla divisa dei giocatori. Il nome “tramezzino”, invece, sarebbe stato coniato dal Poeta per descrivere un tipo di panino farcito assaggiato nel 1925 a Torino; si tratterebbe di una rielaborazione del termine architettonico “tramezzo”, utilizzato per descrivere un elemento posto tra altri — così come la farcitura tra due fette di pancarrè — venuto ad indicare anche, in quegli anni, una “pausa merenda” tra colazione e pranzo, non potendo usare la parola inglese “snack”.

A partire dal 1923, il regime fascista mise in atto una politica di “italianizzazione” forzata in virtù della quale fu introdotta una grande quantità di neologismi con l’intento di contrastare la diffusione dei cosiddetti “forestierismi”, parole di origine straniera entrate a far parte del linguaggio comune. Tra le parole frutto di tale operazione ancora in uso al giorno d’oggi si ricordano, oltre a “tramezzino” (che altrimenti si sarebbe potuto chiamare anche “sandwich”), “tavola fredda” per “buffet”, “autista” per “chauffeur” e “pellicola” per “film”; meno longevi, invece “bevanda arlecchina” per “cocktail”, “arzete” per “cognac” e “torpedone” per “pullman”.

Non sono tutte di origine “autoctona” le “parole d’autore” in uso nella lingua italiana. Si ricorda , ad esempio, la parola “robot”, coniata a partire dalla parola slava “robota” — traducibile come “lavoro pesante” — dal drammaturgo ceco Karel Capek per descrivere gli automi protagonisti di una delle sue opere più celebri, R.U.R.; la locuzione “radical chic” è stata invece inventata negli anni ’70 dal giornalista statunitense Tom Wolf con il fine di criticare l’ipocrisia di certi membri dell’élite “impegnata” di New York: il termine “radical” si rifà infatti all’attitudine di una corrente politica rivoluzionaria ed anticapitalista, mentre “chic” ammicca a quell’eleganza ostentata tipica della borghesia.

La nascita della parola “pandemonio”, invece, utilizzata comunemente per descrivere uno stato di grande disordine e confusione, si dovrebbe al poeta londinese John Milton, il quale ha tratto dall’unione del greco “pân”, ‘tutto’, e “daimónion”, ‘demonio’, il nome della città popolata dai demoni descritta nel poema “Paradiso perduto”. Si deve, invece, al suo concittadino Tommaso Moro il termine “utopia”, con cui l’umanista battezzò l’isola immaginaria dotata di una società ideale protagonista del libro omonimo pubblicato nel 1516: oggi la parola, derivata dall’unione delle voci greche “u”, ‘non’, e “tópos”, ‘luogo’, viene usata per definire l’oggetto di un’aspirazione difficilmente — o non affatto — realizzabile.

Non mancano i neologismi inventati o resi popolari da personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo o dello sport. Tra i più simpatici, Babbel ha incluso: “Carrambata” e “Carramba, sorpresa!”: Raffaella Carrà ha lasciato un segno indelebile nella cultura pop italiana ed internazionale, ma non solo: si è anche guadagnata un posto nella storia della lingua italiana. Il termine “Carrambata” e l’espressione “Carramba, che sorpresa” riprendono uno dei suoi programmi televisivi degli anni ’90 più celebri ed indicano un incontro inaspettato con persone con le quali si erano persi i contatti o che non ci si aspettava di rivedere;

“Goleador”, “centrocampista” e “contropiede”: questi termini, ormai d’uso comune nel linguaggio sportivo e non, sono tutte invenzioni del famoso giornalista sportivo Gianni Brera, conosciuto per essere il “paroliere” del calcio italiano. Il primo termine, che significa “un calciatore che segna molti gol”, deriva dal verbo spagnolo “golear” (letteralmente “segnare gol”) ed è ispirato al termine “toreador” (“torero”). “Centrocampista”, invece, si riferisce al ruolo dei calciatori che giocano nella parte centrale del campo; “contropiede” è utilizzato sia in gergo (si tratta di un rovesciamento di fronte improvviso), sia nella lingua di tutti i giorni: “prendere qualcuno in contropiede”, infatti, significa coglierlo alla sprovvista, sorprendendolo in un momento critico. “Interrogarsi sull’origine di questa tipologia di neologismi può costituire una preziosa occasione per avvicinarsi, da una nuova prospettiva, anche alla lingua che si sta imparando” ha commentato Gianluca Pedrotti di Babbel.