Roma, 8 lug. (askanews) – La Commissione europea vara oggi, nel quadro della sua politica energetica e climatica, la sua “Strategia per una economia dell’idrogeno”, una “roadmap” verso una vera e propria rivoluzione industriale e di mercato in Europa che sviluppi contemporaneamente l’offerta e la domanda di idrogeno “pulito” da utilizzare nella mobilità (come carburante nell’aviazione, nella navigazione e nel trasporto merci su strada), nell’energia (come vettore e per lo stoccaggio delle rinnovabili), nei settori industriali che hanno bisogno di altissime temperature, non raggiungibili con l’elettrificazione (siderurgia, chimica) e anche nel riscaldamento.
La Commissione punta a creare un “ecosistema dinamico dell’idrogeno” con una massa critica di investimenti che assicuri una economia di scala, favorita da un nuovo quadro normativo europeo, e con lo sviluppo di una rete di infrastrutture e di progetti di ricerca e innovazione. Inoltre, sempre oggi, contemporaneamente alla strategia della Commissione, sarà lanciata una “Alleanza per l’idrogeno pulito” che riunirà molti attori industriali del settore privato e del settore pubblico (europeo, nazionale e regionale) che lavoreranno per stabilire una strategia per gli investimenti e un’agenda di progetti concreti.
Al centro della strategia della Commissione c’è l’obiettivo di ridurre notevolmente i costi di produzione dell’idrogeno “verde”, prodotto dall’elettrolisi e con l’uso di elettricità da fonti rinnovabili, in modo da renderlo competitivo rispetto all’idrogeno “grigio”, quello prodotto dalle fonti fossili (gas e carbone) con emissioni di CO2.
Inoltre, nella strategia c’è anche una ambizione geopolitica e di politica industriale: l’Europa, sottolinea la Commissione, è altamente competitiva nelle tecnologie e nella produzione dell’idrogeno pulito, e potrebbe trarre vantaggi importanti dallo sviluppo del mercato mondiale dell’idrogeno.
Oggi, tuttavia, l’idrogeno “rinnovabile” ha una quota di mercato pressoché irrilevante nell’Ue e costa quasi il doppio di quello basato sulle energie fossili (2,5-5 euro per chilogrammo rispetto a 1,5-1,7 euro al chilogrammo). La Commissione rileva comunque che i costi dell’idrogeno verde stanno scendendo rapidamente, e prevede che saranno competitivi rispetto all’idrogeno grigio già nel 2030.
La Commissione è molto chiara sul fatto che l’obiettivo strategico è lo sviluppo dell’idrogeno verde, il solo veramente compatibile e coerente con gli obiettivi ambientali e climatici. Ma, dal punto di vista tattico, la strategia dell’Esecutivo comunitario punta anche sull’idrogeno “blu”, quello prodotto dal “reforming” del gas metano, ma con il sequestro e stoccaggio del carbonio emesso dal processo (Ccs, (“Carbon capture and storage”). Il Ccs, tuttavia, è una tecnologia che si è rivelata finora molto più difficile da applicare rispetto a quanto era previsto, e molto cara, con un costo finale dell’idrogeno attorno ai 2,5 euro per Kg, non molto lontano dal costo dell’idrogeno verde.
Per la Commissione, l’idrogeno blu o “low carbon” dovrà continuare a svolgere un ruolo importante nel breve-lungo termine. La sfida è di aumentare notevolmente la quota di idrogeno presente nell'”energy mix” europeo, oggi inferiore al 2%, anche usando il Ccs per abbattere le emissioni quando è prodotto da fonti fossili, e contemporaneamente sviluppare l’idrogeno verde con la diffusione prevista delle energie rinnovabili e degli elettrolizzatori.
Allo stesso tempo, la Commissione intende utilizzare per quanto è possibile, e ancora per decenni, le infrastrutture già esistenti per trasporto e lo stoccaggio del gas, e in particolare i gasdotti e gli impianti per il gas liquefatto (Gnl), adattandole all’idrogeno.
Questi due elementi comportano come conseguenza il fatto che il sostegno pubblico, in termini di investimenti e di normative, andrà anche, almeno temporaneamente, a un settore dell’industria fossile, quello del gas. Una circostanza contro cui si stanno già scagliando le Ong ecologiste e le forze politiche ambientaliste, a cominciare dai Verdi nel Parlamento europeo, e che vede su posizioni contrapposte persino i diversi attori industriali (per esempio in Italia l’Enel è contro l’idrogeno blu, mentre l’Eni è a favore).
L’Ong Corporate Europe Observatory, che studia da Bruxelles l’influenza delle lobby sulle istituzioni comunitarie, ha rivelato che nei primi 100 giorni dal lancio della sua proposta del “Green Deal”, la Commissione (e in particolare i commissari responsabili per energia e clima) ha avuto 151 incontri con i rappresentanti degli interessi dell’industria fossile, ovvero 11 alla settimana, contro 29 (due alla settimana) con le Ong e altre organizzazioni di pubblico interesse. Il “Green Deal”, denuncia le Ong, rischia di diventare un “Grey Deal”, e l’idrogeno un cavallo di troia per favorire ancora una volta gli interessi dell’economia fossile, in questo caso la lobby del gas.
Il ragionamento della Commissione si fonda tuttavia su alcune motivazioni piuttosto solide: da una parte, il ruolo importante assegnato all’idrogeno blu le garantisce l’alleanza con l’importante settore del gas, che altrimenti si schiererebbe in gran parte contro tutta la strategia dell’idrogeno; dall’altra parte, se si puntasse solo, da subito, sull’idrogeno verde, sarebbe difficile raggiungere la massa critica di produzione e di investimenti necessaria per creare l’economia di scala necessaria per abbassare i costi.
Riguardo alle infrastrutture del gas naturale esistenti, la posizione della Commissione è basata su una valutazione che considera meno costoso e più rapido il loro adattamento e riuso (“repurposing or re-using”) per l’idrogeno, invece della loro ricostruzione ex-novo; inoltre, c’è anche la preoccupazione di tutelare in qualche modo gli investimenti di lungo termine in quelle infrastrutture, evitando che diventino irrecuperabili (“stranded asset”).
In realtà, le critiche ambientaliste alla strategia sull’idrogeno partono dal presupposto che sia insufficiente l’ambizione della Commissione, basata su un obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti al 2030 del 50-55 per cento rispetto al 1990, per poi arrivare alla “neutralità carbonica” (zero emissioni nette) nel 2050. Gli ambientalisti vorrebbero invece una riduzione delle emissioni di almeno il 65% nel 2030, con un ritmo di decarbonizzazione e di sviluppo delle rinnovabili più accelerato nei prossimi anni, rispetto a quanto prevede l’Esecutivo comunitario.